Sicurezza lavoro

Sentenza Corte Costituzionale n. 153/2014

Sentenza Corte Costituzionale n. 153/2014

Corte Costituzionale, Sentenza n. 153/2014, in tema di regime sanzionatorio per violazione da parte del datore di lavoro di divieti relativi alla durata massima dell'orario di lavoro

La Corte Costituzionale, con la sentenza n.153 del 21 maggio 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale (per contrasto con l’art.76 della Costituzione), dell’art.18-bis “sanzioni” commi 3 e 4 del D.lgs. n. 66/2003.

La pronuncia di illegittimità della Consulta ha trovato la sua ragione d’essere in quanto tale disposizione (il D.Lgs. n.213/04, in vigore fino al 2008) ha introdotto un regime sanzionatorio sensibilmente più severo rispetto a quello previgente.

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Sentenza 153/2014 (ECLI:IT:COST:2014:153)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: SILVESTRI - Redattore: MATTARELLA
Udienza Pubblica del 15/04/2014; Decisione del 21/05/2014
Deposito del 04/06/2014; Pubblicazione in G. U. 11/06/2014 n. 25
Norme impugnate: Art. 18 bis, c. 3° e 4°, del decreto legislativo 08/04/2003, n. 66.
Massime: 37983
Atti decisi: ord. 170/2012

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SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), promosso dal Tribunale di Brescia, nel procedimento vertente tra (Omissis) ed altra e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione provinciale del lavoro di Brescia, con ordinanza del 21 marzo 2012, iscritta al n. 170 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti l’atto di costituzione di (Omissis) s.p.a. (già (Omissis) s.r.l.), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2014 il Giudice relatore Sergio Mattarella;

uditi l’avvocato (Omissis) per l’(Omissis) s.p.a. (già (Omissis) s.r.l.) e l’avvocato dello Stato Filippo Bucalo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. Nel corso di un giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione emessa dalla Direzione provinciale del lavoro per l’irrogazione di sanzioni amministrative in materia di lavoro, il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 21 marzo 2012 ha sollevato, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).

1.1. Il giudice remittente precisa, in punto di fatto, che l’ordinanza ingiunzione oggetto di opposizione è stata emessa per le seguenti violazioni: art. 4, commi 2, 3 e 4, del d.lgs. n. 66 del 2003, per superamento della durata massima dell’orario di lavoro settimanale; art. 5, comma 3, del medesimo decreto, per svolgimento di lavoro straordinario oltre il limite di 250 ore annuali; art. 7, comma 1, del medesimo decreto, per mancata fruizione del riposo giornaliero di undici ore ogni ventiquattro nel periodo dal 1° ottobre 2007 al 26 aprile 2008; art. 9, comma 1, del medesimo decreto, per mancata concessione del riposo settimanale di almeno ventiquattro ore nel medesimo periodo appena riportato.

Rileva poi il Tribunale che la parte privata ricorrente ha eccepito l’illegittimità costituzionale del regime sanzionatorio applicabile nella specie, e che l’accoglimento della questione determinerebbe l’applicazione di un regime «diverso e migliore», in base alla normativa in precedenza vigente.

In particolare, per le violazioni degli artt. 7 e 9 del d.lgs. n. 66 del 2003, se si applicasse nella specie l’art. 9 del regio decreto-legge 15 marzo 1923, n. 692 (Limitazione dell’orario di lavoro per gli operai ed impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 aprile 1925, n. 473 la sanzione sarebbe compresa tra 25 e 154 euro ovvero, qualora si tratti di più di cinque lavoratori, tra i 154 e i 1.032 euro; la disciplina introdotta nel 2003, invece, individua limiti compresi tra euro 104 ed euro 630 per ciascun lavoratore e non più per singola violazione, mentre la violazione dell’art. 4 del d.lgs. n. 66 del 2003 prevede una sanzione oscillante tra 130 e 780 euro per ogni lavoratore e per ciascun periodo.

1.2. Tanto premesso, il giudice a quo osserva che il d.lgs. n. 66 del 2003 è stato emanato sulla base della delega contenuta nella legge 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001), la quale prevedeva, fra l’altro, nel suo art. 2, comma 1, lettera c), il criterio direttivo per cui le sanzioni amministrative dovevano essere regolate secondo la previsione per cui in ogni caso «saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi». Sulla base di simile previsione, il remittente pone a confronto le regole previste in materia di orario di lavoro nella disciplina previgente e quelle contenute nel d.lgs. n. 66 del 2003, allo scopo di verificare se si possa parlare di violazioni «omogenee e di pari offensività», pervenendo alla conclusione affermativa.

Ed infatti, la regolazione dell’orario di lavoro di cui all’art. 4 del decreto n. 66 del 2003 trova un’evidente rispondenza alle previsioni di cui agli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923 (orario di lavoro massimo di otto ore, pari a quarantotto ore settimanali, con non più di due ore al giorno di straordinario); queste ultime norme prevedevano un regime dell’orario di lavoro la cui violazione implicava l’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 9 del r.d.l. n. 692 del 1923. Allo stesso modo, l’art. 4 del decreto n. 66 del 2003 «non si differenzia dalla disciplina previgente se non limitatamente al computo complessivo inderogabile settimanale», per cui la violazione del medesimo dovrebbe comportare l’applicazione della sanzione di cui al menzionato art. 9 del r.d.l. menzionato.

Considerazioni analoghe possono essere svolte – secondo il Tribunale – a proposito della disciplina sul riposo giornaliero di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003, nonché per quella del riposo settimanale di cui all’art. 9 del medesimo decreto. Rimanendo ferma, rispetto alla regolazione precedente, la regola del riposo settimanale di ventiquattro ore, si aggiungono modeste differenze rispetto alla disciplina contenuta nella legge 22 febbraio 1934, n. 370 (Riposo domenicale e settimanale).

La conclusione cui perviene il Tribunale di Brescia è nel senso che, pure in assenza di una «perfetta identità» tra le fattispecie di cui al decreto n. 66 del 2003 e quelle di cui alle leggi previgenti sopra richiamate, «sotto il profilo della omogeneità si tratta di discipline regolanti entrambe il rispetto di minimi irrinunciabili nel rapporto tra tempo lavorativo e riposo». Analogamente, sotto il profilo delle sanzioni, la disciplina vigente e quella pregressa sono animate dal medesimo fine, che è quello di «salvaguardare le condizioni del singolo lavoratore, senza che possa farsi derivare una diversa conclusione in relazione al differenziato regime della disciplina previgente nel caso di violazioni relative ad un numero di lavoratori superiori ai cinque». Sicché, secondo il Tribunale, l’unicità della materia e la semplice differenziata modulazione dei sistemi di conteggio dei limiti massimi consentono di ritenere che la nuova disciplina sia omogenea rispetto alla precedente.

Ciò comporta la necessità della rimessione alla Corte costituzionale, attesa la violazione dell’art. 76 della Costituzione.

2. Nel giudizio si è costituita la parte privata (Omissis) s.p.a., ricorrente avverso l’ordinanza ingiunzione, chiedendo l’accoglimento della prospettata questione.

2.1.— La parte, dopo aver ricordato le circostanze di fatto del giudizio a quo e le violazioni contestate degli artt. 4, 5, 7 e 9 del d.lgs. n. 66 del 2003, osserva che il provvedimento di ingiunzione prevedeva una sanzione complessiva pari ad euro 23.610, sanzione pagata con riserva di ripetizione.

Ciò premesso, la parte provvede ad una ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce l’odierna questione. Con la citata legge n. 39 del 2002 è stata concessa una delega dal Parlamento al Governo per l’attuazione di direttive comunitarie, tra le quali quelle in materia di orario di lavoro; l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge ha previsto come criterio direttivo quello per cui le sanzioni amministrative dovevano essere identiche a quelle comminate dalle leggi vigenti per le violazioni omogenee e di pari offensività. In attuazione della delega, gli artt. 4, 7 e 9, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2003, regolando la materia dell’orario di lavoro e dei riposi giornalieri e settimanali, nella loro originaria formulazione non prevedevano specifiche sanzioni per la violazione di dette norme; ed anche le direzioni provinciali del lavoro avevano inteso tale silenzio come indice del fatto che dovessero continuare a trovare applicazione le sanzioni previste per precetti di analogo contenuto nella legislazione previgente. In particolare, per la violazione delle regole sul riposo giornaliero si applicava la sanzione di cui all’art. 9 del r.d.l. n. 692 del 1923; per la violazione della disciplina del riposo settimanale si applicava la sanzione dell’art. 27 della legge n. 370 del 1934; per la violazione della disciplina sull’orario di lavoro settimanale si applicava l’art. 9 del r.d.l. n. 692 del 1923.

La situazione, però, è radicalmente mutata con l’entrata in vigore del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro), il quale, introducendo l’art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003, ha fissato specifiche sanzioni per la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, 7, comma 1, e 9, comma 1, del decreto stesso; sanzioni molto più elevate rispetto a quelle previste dalle citate leggi precedenti, le quali sono rimaste applicabili, al massimo, per le violazioni compiute fino al 31 agosto 2004 e non oltre. La legittimità costituzionale di tale modifica legislativa costituisce l’oggetto del presente giudizio.

2.2. Secondo la parte costituita, la rilevanza della presente questione è palese. Il giudizio a quo, infatti, verte soltanto sull’ammontare delle sanzioni dovute; e l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale determinerebbe o il venire meno di ogni sanzione per le violazioni contestate nel giudizio in corso, oppure l’applicazione delle più lievi sanzioni di cui alla normativa pregressa.

2.3. La parte privata passa quindi all’esame della non manifesta infondatezza della questione.

Il criterio direttivo di cui al citato art. 2 della legge delega dovrebbe far comprendere che il legislatore, nel momento in cui si è richiamato alle sanzioni previste dalle leggi vigenti, non poteva che intendere le leggi vigenti al momento della sua entrata in vigore. Com’è stato confermato anche da numerosi interpreti, l’espressione “in ogni caso” usata dal legislatore delegante deve essere interpretata nel senso di non ammettere deroghe, imponendo l’attuazione del principio anche se «essa avesse comportato la previsione di una sanzione amministrativa di importo non compreso tra euro 103 ed euro 103.291», in ciò superando il diverso criterio direttivo contenuto nella medesima disposizione della legge delega. In altre parole, in presenza di violazioni «omogenee e di pari offensività», il criterio fissato nella delega sarebbe, secondo la parte, quello per cui non potrebbe essere prevista l’irrogazione di sanzioni diverse da quelle già previste in precedenza. Da tanto consegue che non sarebbe possibile «negare l’omogeneità e la pari offensività delle violazioni di norme, che immutate nel principio e nella struttura, prevedano limiti quantitativi diversi al cui superamento consegue la sanzione oppure ipotesi derogatorie diverse».

Premessa questa ricostruzione, la società costituita passa a confrontare le norme sanzionatorie contenute nel d.lgs. n. 66 del 2003 con quelle previste nel sistema previgente e, sulla base di richiami giurisprudenziali e di dottrina, perviene alle seguenti conclusioni: 1) che la disposizione dell’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2003 in tema di riposo settimanale ha in sostanza riprodotto l’art. 1, comma 1, della legge n. 370 del 1934, pur senza negare che vi sono alcune diversità lessicali le quali non mutano la sostanza del precetto, tanto che le direzioni provinciali del lavoro avevano applicato sempre l’art. 27 della legge n. 370 del 1934 fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 213 del 2004; 2) che l’art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003 «ha di fatto riproposto un principio omogeneo a quello deducibile, nel vigore del sistema previgente, dal combinato disposto degli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923»; 3) che l’art. 4 del d.lgs. n. 66 del 2003 in tema di durata media dell’orario di lavoro ha pure riproposto un principio deducibile, nel vigore del sistema previgente, dal combinato disposto degli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923.

La parte privata, pertanto, conclude nel senso che le sanzioni amministrative introdotte dall’art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003 sono di misura ben superiore rispetto a quelle esistenti nel pregresso sistema, con ciò determinando l’evidente violazione della disposizione contenuta nella legge delega e, quindi, dell’art. 76 Cost.

3. Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata.

3.1. L’inammissibilità deriverebbe dal fatto che l’ordinanza di rimessione non consente di apprezzare la rilevanza della questione, poiché il Tribunale non indica analiticamente le sanzioni comminate nella specie, né quelle che sarebbero applicabili in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale.

3.2. Nel merito, la questione sarebbe comunque priva di fondamento.

Osserva l’Avvocatura dello Stato che il tema centrale dell’odierno giudizio consiste nello stabilire l’esatta portata della nozione di “omogeneità” delle violazioni cui si riporta la norma di delega. Soltanto ove tale requisito fosse dimostrato, infatti, si potrebbe prefigurare una fondatezza della prospettata questione. Ma tale omogeneità non sussiste, secondo la parte intervenuta.

L’ordinamento italiano, infatti, dovendo dare attuazione alle direttive dell’Unione europea, non ha scelto di modificare o integrare le disposizioni precedenti, quanto di procedere all’integrale riscrittura della disciplina dell’orario di lavoro. Nel sistema attuale, essa prevede la fissazione di un orario medio complessivo settimanale, comprensivo del lavoro straordinario, pari a quarantotto ore; un periodo minimo di riposo giornaliero di undici ore ogni ventiquattro e un periodo di riposo settimanale pari a ventiquattro ore ogni sette giorni. La durata massima della settimana lavorativa, però, viene demandata alla contrattazione collettiva. Nel sistema precedente, invece, gli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923 fissavano la durata massima del lavoro ordinario, di quello straordinario e della settimana lavorativa.

La previsione di una durata media complessiva della settimana lavorativa, da rispettare sull’arco temporale di riferimento di quattro mesi, consente la concentrazione del lavoro in periodi di tempo ridotti, mentre il r.d.l. n. 692 del 1923 non conteneva analoghe disposizioni. Sotto questo profilo sarebbe evidente il carattere fortemente innovativo dell’odierno sistema, sia in ordine all’orario settimanale che a quello giornaliero. Quanto al lavoro giornaliero, il limite delle undici ore ogni ventiquattro non esisteva nel sistema pregresso; ed anche per il riposo settimanale l’art. 9 del d.lgs. n. 66 del 2003 innova rispetto alla disciplina di cui alla legge n. 370 del 1934.

In conclusione – secondo l’Avvocatura dello Stato – la nuova disciplina si fonda su presupposti totalmente diversi da quelli del passato, sicché la mancanza di omogeneità esclude la possibilità di violazione del precetto contenuto nella legge delega.

Considerato in diritto

1. Il Tribunale ordinario di Brescia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all’articolo 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro). Tali disposizioni – le quali prevedono, rispettivamente, che la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, e 10, comma 1, del decreto stesso sia punita con la sanzione amministrativa da 130 a 780 euro per ogni lavoratore e per ciascun periodo (comma 3), e che la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 7, comma 1, e 9, comma 1, del decreto stesso sia punita con la sanzione amministrativa da 105 a 630 euro (comma 4) – si porrebbero in contrasto con l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge delega 1° marzo 2002, n. 39 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2001), il quale ha previsto come criterio direttivo in materia di sanzioni amministrative che, nel passaggio dal precedente al nuovo regime, in ogni caso «saranno previste sanzioni identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi». E poiché – secondo la ricostruzione operata dal Tribunale – le precedenti disposizioni in materia prevedevano l’irrogazione di sanzioni più miti, ciò si tradurrebbe nella conseguente illegittimità costituzionale per violazione della legge delega.

2. Va innanzitutto rigettata l’eccezione preliminare sollevata dall’Avvocatura dello Stato secondo la quale la questione sarebbe inammissibile perché l’ordinanza di rimessione non avrebbe dato conto in modo adeguato della rilevanza della medesima. L’eccezione non è fondata, perché il Tribunale di Brescia ha illustrato sia la fattispecie concreta posta al suo esame sia le sanzioni amministrative che sono state irrogate sulla base delle censurate disposizioni, indicando anche quali erano – secondo la sua prospettazione – le sanzioni che si sarebbero dovute applicare in base al sistema previgente, il che comporta che sia da ritenere dimostrata in modo sufficiente la rilevanza dell’odierna questione di legittimità costituzionale.

3. Ai fini del corretto inquadramento della questione è opportuna una breve premessa di carattere ricostruttivo.

Il decreto legislativo n. 66 del 2003 ha dato attuazione, anche se con notevole ritardo, a due direttive comunitarie, n. 93/104/CE e n. 2000/34/CE in materia di organizzazione dell’orario di lavoro. In sede di emanazione del decreto si decise, per ragioni che non interessano nella sede odierna, di non intervenire sul regime sanzionatorio relativo alle violazioni in materia di orario di lavoro. Di tanto costituisce specchio evidente la previsione dell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2003 che, nella sua versione originaria, prevedeva l’abrogazione, dalla data di entrata in vigore, di tutte le disposizioni legislative e regolamentari in materia, «salve le disposizioni espressamente richiamate e le disposizioni aventi carattere sanzionatorio»; il che prova che il legislatore delegato era ben consapevole della necessità di mantenere in vita le sanzioni amministrative previgenti.

Un ulteriore e successivo intervento, rappresentato dal decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro), avvalendosi dello strumento della delega correttiva – prevista, nel caso specifico, dall’art. 1, comma 4, della legge delega n. 39 del 2002 – aggiunse nel corpo del d.lgs. n. 66 del 2003, oltre ad altre modifiche, anche il nuovo art. 18-bis, oggetto del presente giudizio.

La materia, peraltro, non ha trovato una propria stabile sistemazione con l’introduzione dell’art. 18-bis oggi censurato, perché successivamente il legislatore è intervenuto più volte proprio su tale articolo, che è stato oggetto di ulteriori modifiche contenute prima nell’art. 41 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 2008, n. 133. Successivamente, nell’art. 7 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro). Da ultimo, nell’art. 14, comma 1, lettera c), del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145 (Interventi urgenti di avvio del piano “Destinazione Italia”, per il contenimento delle tariffe elettriche e del gas, per l’internazionalizzazione, lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese, nonché misure per la realizzazione di opere pubbliche ed EXPO 2015), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n. 9.

È necessario precisare che, avendo il giudice a quo chiarito che le sanzioni amministrative inflitte nel giudizio davanti a lui pendente riguardano il periodo di tempo che va dall’ottobre 2007 al giugno 2008, lo scrutinio della Corte sarà limitato, in conformità al principio della domanda, al testo originario dell’art. 18-bis, che è quello cui si riferisce il Tribunale di Brescia, senza riguardare in alcun modo il testo risultante dalle modifiche successive di detta norma.

4. Lo scrutinio della Corte, quindi, riguarda la prospettata violazione dei principi della legge delega derivante dalla previsione di sanzioni amministrative più elevate rispetto a quelle di cui al sistema previgente; in particolare, la Corte è chiamata a stabilire se le sanzioni introdotte dalla norma impugnata possano o meno considerarsi diverse – e, in questo caso, maggiori – rispetto «a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività». La sussistenza del carattere della omogeneità costituisce, evidentemente, un aspetto decisivo, perché il riconoscimento dell’eventuale non omogeneità delle nuove sanzioni rispetto alle precedenti escluderebbe in radice la sussistenza di una violazione della legge delega; e proprio su questo punto, infatti, si è concentrata la linea difensiva dell’Avvocatura dello Stato. Una volta verificata l’esistenza di tale elemento, si dovrà procedere al confronto delle sanzioni.

4.1. È appena il caso di rammentare – trattandosi di una questione di legittimità costituzionale prospettata esclusivamente in termini di violazione della delega legislativa – che costituisce giurisprudenza pacifica di questa Corte il principio secondo cui, ove sia necessario verificare la conformità della norma delegata alla norma delegante, è richiesto lo svolgimento di un duplice processo ermeneutico, condotto in parallelo: l’uno, concernente la norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi. Nel determinare il contenuto della delega si deve tenere conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, che costituiscono non solo la base e il limite delle norme delegate, ma anche gli strumenti per l’interpretazione della loro portata. Deve, altresì, considerarsi che la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato; questa può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega. Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente (fra le altre, sentenze n. 272 del 2012 e n. 184 del 2013).

In riferimento, poi, ai cosiddetti decreti legislativi integrativi e correttivi, questa Corte, nel riconoscerne l’ammissibilità da un punto di vista costituzionale, ha tuttavia precisato che ciò che conta è «che si intervenga solo in funzione di correzione o integrazione delle norme delegate già emanate, e non già in funzione di un esercizio tardivo, per la prima volta, della delega “principale”; e che si rispettino pienamente i medesimi principi e criteri direttivi già imposti per l’esercizio della medesima delega “principale”» (sentenza n. 206 del 2001). Il che significa, nel caso di specie, che il medesimo criterio direttivo sopra richiamato, ancorché dettato per l’esercizio della delega principale, deve ovviamente valere anche in sede di emanazione del decreto integrativo e correttivo, ossia quello che contiene la norma oggi in esame.

5. E’ necessario, quindi, procedere al confronto, in relazione alle sanzioni amministrative in concreto erogate nel giudizio a quo, tra le previsioni dei censurati commi 3 e 4 dell’art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003 e le sanzioni di cui al sistema precedente.

5.1. Come correttamente risulta dall’ordinanza di rimessione, il sistema sanzionatorio relativo alle violazioni in tema di orario di lavoro e di riposo domenicale e festivo era contenuto, fino all’entrata in vigore della norma oggi in esame, in una normativa molto risalente nel tempo, ossia il regio decreto-legge 15 marzo 1923, n. 692 (Limitazioni dell’orario di lavoro per gli operai ed impiegati delle aziende industriali o commerciali di qualunque natura), e la legge 22 febbraio 1934, n. 370 (Riposo domenicale e settimanale).

In particolare, gli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923 prevedevano una durata massima della normale giornata di lavoro pari ad otto ore al giorno per 48 ore settimanali di lavoro effettivo, con possibilità di incremento, a titolo di lavoro straordinario, per non più di due ore al giorno per dodici ore settimanali. La relativa sanzione era contenuta nel successivo art. 9 il quale – nel testo risultante dalle modifiche di cui all’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 (Modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro) – prevedeva una sanzione amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila (ossia da 25 a 155 euro), con incremento qualora essa si riferisse a più di cinque lavoratori ovvero si fosse verificata nel corso dell’anno solare per più di cinquanta giorni.

In materia di riposo settimanale, l’art. 1 della legge n. 370 del 1934 prevedeva l’obbligo di un riposo di 24 ore consecutive per ogni settimana, di regola fissato per la domenica (art. 3); le relative sanzioni erano contenute nel successivo art. 27, secondo cui la contravvenzione a tale previsione era punita con la sanzione amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila, suscettibile di aumento qualora la stessa fosse riferita a più di cinque lavoratori.

Tali disposizioni, com’è evidente, rispondevano ad una realtà economica e lavorativa assai più semplice di quella odierna, ma tuttavia dimostrano come fin da allora la legge fosse attenta a questo profilo, ritenendo che la violazione della disciplina in tema di orario di lavoro fosse un indice di sfruttamento dei lavoratori, da punire con il necessario rigore.

5.2. Rispetto a tale risalente normativa, il d.lgs. n. 66 del 2003 introduce alcune significative modifiche.

Ai fini che interessano l’odierna questione, è da porre in evidenza, ad esempio, che l’art. 3, nel prevedere un orario normale di 40 ore settimanali, consente ai contratti collettivi di stabilire una durata minore; l’art. 4, nell’attribuire ai contratti collettivi il potere di stabilire la durata massima settimanale dell’orario di lavoro, dispone che la durata media non possa superare, per ogni periodo di sette giorni, le 48 ore, comprese quelle dello straordinario; e il successivo comma 3 stabilisce che la durata media vada calcolata con riferimento ad un periodo non superiore a quattro mesi.

Quanto al lavoro straordinario, l’art. 5 del d.lgs. n. 66 del 2003, pur rimandando ai contratti collettivi la regolamentazione delle relative prestazioni, fissa un massimo di 250 ore annuali.

In relazione, infine, al riposo giornaliero e settimanale, l’art. 7 determina il riposo giornaliero in undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore, mentre l’art. 9 dispone che il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica.

Per ciò che riguarda, invece, il sistema delle sanzioni, il comma 3 dell’art. 18-bis oggi censurato stabilisce la sanzione amministrativa da 130 a 780 euro, per ogni lavoratore e per ciascun periodo di violazione, per le violazioni di cui agli artt. 4, commi 2, 3 e 4, e 10, comma 1, del decreto (fra i quali rientra la disciplina sull’orario di lavoro); mentre il comma 4 dell’art. 18-bis oggi censurato stabilisce la sanzione amministrativa da 105 a 630 euro per le violazioni di cui agli artt. 7, comma 1, e 9, comma 1, del medesimo decreto, ossia le norme che regolano il riposo giornaliero e settimanale.

6. La questione è fondata.

Dalla ricostruzione operata fin qui risulta in modo evidente che il sistema delineato dal d.lgs. n. 66 del 2003, pur in parte diverso da quello passato, presenta una definizione dei limiti di lavoro e delle relative violazioni omogenea rispetto a quella precedente.

Il fatto, ad esempio, che gli artt. 1 e 5 del r.d.l. n. 692 del 1923 non contenessero una norma esplicita sulla durata dell’orario di lavoro settimanale, ma solo la previsione di un orario giornaliero normale e straordinario, dava conto anche, sia pure indirettamente, dell’orario settimanale; si può riconoscere che, prima dell’entrata in vigore dell’art. 7 del d.lgs. n. 66 del 2003, non c’era una norma esplicita sul riposo giornaliero, ma è altrettanto vero che lo stesso derivava (per sottrazione) dalla durata della giornata togliendo le ore massime di lavoro. Sembra innegabile, in altre parole, che, nonostante le indubbie diversità, vi sia una sostanziale coincidenza nella logica di fondo che anima i due diversi sistemi: entrambi sanzionano l’eccesso di lavoro e lo sfruttamento del lavoratore che ne consegue, ponendo limiti all’orario di lavoro giornaliero e settimanale ed imponendo periodi di necessario riposo. Ed è appena il caso di rilevare che, nel lungo tempo che separa la legislazione degli anni venti e trenta dello scorso secolo dall’intervento del legislatore del 2003, si colloca anche l’entrata in vigore della Costituzione, il cui art. 36 demanda alla legge ordinaria il compito di stabilire la durata massima della giornata lavorativa e riconosce al lavoratore il diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite.

Ai fini, quindi, del rispetto dei criteri fissati nella legge delega, deve affermarsi che le sanzioni amministrative previste dal r.d.l. n. 692 del 1923 e dalla legge n. 370 del 1934 corrispondono a violazioni da ritenere omogenee rispetto a quelle regolate dal d.lgs. n. 66 del 2003 e che, pertanto, la normativa sanzionatoria oggi in esame era tenuta al rispetto della previsione della delega nel senso della necessaria identità rispetto alle sanzioni precedenti; le quali, come si è già detto, erano state ritoccate al rialzo dal d.lgs. n. 758 del 1994.

Risulta in modo evidente, invece, proprio sulla base del confronto sopra compiuto, che le sanzioni amministrative di cui all’art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003 sono più alte di quelle irrogate nel sistema precedente; e, trattandosi di un’operazione di puro confronto aritmetico, non sussistono dubbi interpretativi.

Ne discende la fondatezza della questione di legittimità costituzionale, perché effettivamente sussiste la violazione del criterio direttivo contenuto nell’art. 2, comma 1, lettera c), della legge di delega n. 39 del 2002, sicché se ne impongono l’accoglimento e la conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni, per violazione dell’art. 76 Cost.

È appena il caso di rilevare, d’altronde, che le conclusioni cui la Corte giunge trovano ulteriore conforto dalla consultazione degli atti parlamentari, dai quali si evince che il legislatore delegato ha riformato il sistema sanzionatorio nella erronea convinzione di poter intervenire liberamente per l’assenza di norme sanzionatorie precedenti (in particolare, la seduta del 28 aprile 2004 della undicesima Commissione della Camera dei deputati).

7. Alla luce di quanto già osservato incidentalmente al precedente punto 3, l’accoglimento dell’odierna questione si limita al petitum richiesto e non esplica alcuna efficacia sulle successive modifiche legislative relative alla medesima disposizione oggi in esame.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, commi 3 e 4, del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro), nel testo introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera f), del decreto legislativo 19 luglio 2004, n. 213 (Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66, in materia di apparato sanzionatorio dell’orario di lavoro).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2014.

F.to:

Gaetano SILVESTRI, Presidente

Sergio MATTARELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2014.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella MELATTI

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