Cassazione Penale Sez. 4 del 20 febbraio 2020 n. 6567
Infortunio con un impianto per la produzione di pannelli nobilitati. Facilità da parte del lavoratore di elusione del meccanismo di sicurezza
Penale Sent. Sez. 4 Num. 6567 Anno 2020
Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: ESPOSITO ALDO
Data Udienza: 17/10/2019
"Al riguardo della certificazione CE, va ribadito quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, ossia che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza dell'ambiente di lavoro, è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati e risponde, pertanto, dell'infortunio occorso ad un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità CE o l'affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano ad esonerarli dalla loro responsabilità.
In merito, questa Corte ha anche precisato che la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l'evento dannoso sia stato provocato dall'inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro sul quale grava l'obbligo di eliminare ogni fonte di percolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori e che a detta regola può farsi eccezione nel solo caso in cui l'accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di apprezzarne la sussistenza con l'ordinaria diligenza, il che non era nel caso di specie (Sez. 4, n. 54480 del 10/11/2015, Pucci, non massimata; Sez. 4, n. 26247 del 30/05/2013, Magrini, Rv. 256948)."
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Venezia ha confermato la sentenza del Tribunale di Treviso del 13 maggio 2016, con cui C.M. era stato condannato alla pena di euro millecinquecento di multa in relazione al reato di cui agli artt. 40, comma secondo, e 590, comma terzo, cod. pen. (colpa consistita nella violazione degli artt. 2087 cod. civ., 64 e 71 D. Lgs. n. 81 del 2008, perché, in qualità di legale rappresentante della Walco s.p.a., aveva messo a disposizione del lavoratore R.R. un'attrezzatura - impianto per la produzione di pannelli nobilitati - inidonea ai fini di sicurezza in quanto priva di sistema in grado di impedire efficacemente l'accesso alle zone degli elementi mobili, per cui cagionava al lavoratore lesioni gravi consistite in «trauma cranio non commotivo, scalpo del cuoio capelluto, plurime ferite lacere al volto e distacco parziale dell'orecchio destro, con conseguente incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni» - in Cison di Vaimarino il 28 febbraio 2012).
Durante la prova per l'utilizzo di una nuova colla presso un impianto per la produzione di pannelli nobilitati, il lavoratore R.R., avendo notato un pannello uscito non in linea dalla macchina (vedi sul punto la sentenza di primo grado), si introduceva nell'area di funzionamento degli elementi mobili, disattivando le fotocellule poste all'ingresso della macchina. Giunto nei pressi del punto di scarico dei pannelli, il pettine della macchina lo colpiva in testa e gli causava le lesioni descritte nel capo di imputazione.
La macchina presso la quale era avvenuto l'infortunio era dotata di fotocellule, che potevano essere aggirate (temporaneamente disattivate e poi riattivate). Si trattava di manovra usuale a detta dell'infortunato, circostanza smentita dagli altri lavoratori.
2. Il C., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo tre motivi di impugnazione.
2.1. Vizio di motivazione nella parte della sentenza in cui è assunto che il fondamento della responsabilità risiederebbe nella mera possibilità che i presidi di sicurezza (nella specie le fotocellule antintrusione), dei quali la macchina era dotata, potessero essere facilmente elusi dal lavoratore, consentendo così l'accesso alle zone interessate dalla presenza di componenti mobili, in violazione dell'All. V, parte I, art. 6.1, del D. Lgs. n. 81 del 2008).
Si deduce che la lavorazione in questione non prevedeva l'accesso del lavoratore alle zone pericolose, le quali peraltro erano assai lontane dalla sua postazione, per cui doveva escludersi in radice un rischio di contatto accidentale.
Il lavoratore si era addentrato per diversi metri all'interno della linea 2 prima di essere attinto dal pettine, nei pressi del quale non era previsto nessun uso dell'attrezzatura ex art. 69, comma 1, lett. b), D. Lgs. n. 81 del 2008. Non sussistevano esigenze di manutenzione e l'entrata in quell'area era stata espressamente vietata al lavoratore. Non era stata dimostrata una tolleranza da parte del datore di lavoro di una prassi contraria alle predette istruzioni.
La formazione, l'informazione e le istruzioni impartite prevedevano chiaramente che la disattivazione della cellula dovesse essere funzionale esclusivamente al passaggio delle cataste di legno lungo i rulli trasportatori. L'impianto era sicuro e gli enti preposti avevano rilasciato alla società le certificazioni in materia di sicurezza, verificando la sicurezza del processo produttivo e dei macchinari utilizzati, ragione per la quale la Corte territoriale ha assolto la società in relazione all'illecito amministrativo contestatole.
2.2. Violazione dell'art. 41, comma secondo, cod. pen. e vizio di motivazione.
Si rileva che tutti i testimoni avevano osservato che sussisteva un divieto assoluto di entrare nella macchina durante il funzionamento e che nel corso degli anni nessun lavoratore l'aveva mai violato prima del giorno del fatto. Inoltre, l'attraversamento delle fotocellule da parte della persona comportava il blocco della macchina. L'infortunio avveniva in un momento in cui le lavorazioni erano ferme e l'impianto non era in funzione.
Si versava in ipotesi di comportamento abnorme del lavoratore, avendo egli violato consapevolmente le cautele impostegli, ponendo in essere una situazione di pericolo imprevedibile ed inevitabile.
2.3. Violazione dell'art. 521 cod. proc. pen..
Si osserva che la violazione degli obblighi di formazione ed informazione, su cui si è basata l'affermazione di colpevolezza, non era mai stata contestata e che l'imputazione concerneva esclusivamente la messa a disposizione di un'attrezzatura inidonea.
Per quanto attiene al primo motivo di ricorso, secondo la motivazione priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto del provvedimento impugnato, che pertanto si sottrae alle proposte censure di legittimità, sul C. gravavano in toto tutti gli obblighi in materia prevenzionale del datore di lavoro, che, in quanto tale, è il garante primario della sicurezza del lavoratore, in quanto titolare di un rapporto di lavoro o comunque dominus di fatto dell'organizzazione dell'attività lavorativa.
Fonte primaria degli obblighi di sicurezza che fanno capo al datore di lavoro - com'è noto - è il D. lgs n. 81 del 2008, il cui art. 17 individua tassativamente gli obblighi non delegabili del datore di lavoro, individuandoli: "a) nella valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall'art. 28; b) nella designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi".
Il terzo obbligo non delegabile, cioè quello di vigilanza, viene ricavato, poi, dall'articolo immediatamente precedente che al comma terzo espressamente prevede che: "La delega di funzioni non esclude l'obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite."; mutando, in questo caso, il contenuto della situazione d'obbligo del datore di lavoro: da obbligo di adempiere personalmente a obbligo di vigilanza sull'attività del delegato.
L'art. 18 contiene un elenco meticoloso degli obblighi che devono essere adempiuti inderogabilmente dal datore di lavoro in persona e li distribuisce tra il datore di lavoro e il dirigente, sia pur, con riferimento a quest'ultimo, nei limiti segnati dalle attribuzioni e dalle competenze ad esso conferite.
In proposito, va ricordato, innanzitutto, il principio affermato dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261105), secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio dì prevenzione e protezione, ha l’obbligo giuridico di analizzare ed individuare, secondo la propria, esperienze e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 D. Lgs. n. 81 del 2008: all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori.
Va dunque qui riaffermato il principio che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro quale responsabile della sicurezza, è gravato non solo dell'obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. 2015, Ottino, Rv. 263200; Sez. U, n. 5 del 25/11/1998, dep. 1999, Loparco, Rv. 212577). E' stato altresì precisato che, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile (Sez. 4, n. 4325 del 27/10/2015, dep. 2016, Zappalà, Rv. 265942).
Come si diceva, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento dì valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 D. Lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, in relazione alla singola lavorazione o all'ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori; il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione di suddetto documento non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata (Sez. 4, n. 27295 del 02/12/2015 dep. 2017, Furlan, Rv. 270355).
Tanto premesso sui principi operanti in materia, il profilo di responsabilità del datore di lavoro per inosservanza del dovere di vigilanza è stato adeguatamente vagliato dalla Corte di appello, che ha sottolineato la facilità da parte del lavoratore di elusione del meccanismo di sicurezza.
Il ricorrente non affronta tale specifico tema, limitandosi ad evidenziare l'esistenza di un divieto di accesso alla macchina, che però era agevolmente aggirabile dal lavoratore, come poi dimostrato dalle modalità di svolgimento dell'Infortunio.
1.1. Al riguardo della certificazione CE, va ribadito quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità sul punto, ossia che il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza dell'ambiente di lavoro, è tenuto ad accertare la corrispondenza ai requisiti di legge dei macchinari utilizzati e risponde, pertanto, dell'infortunio occorso ad un dipendente a causa della mancanza di tali requisiti, senza che la presenza sul macchinario della marchiatura di conformità CE o l'affidamento riposto nella notorietà e nella competenza tecnica del costruttore valgano ad esonerarli dalla loro responsabilità.
In merito, questa Corte ha anche precisato che la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l'evento dannoso sia stato provocato dall'inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro sul quale grava l'obbligo di eliminare ogni fonte di percolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di adottare tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire la sicurezza dei lavoratori e che a detta regola può farsi eccezione nel solo caso in cui l'accertamento di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di apprezzarne la sussistenza con l'ordinaria diligenza, il che non era nel caso di specie (Sez. 4, n. 54480 del 10/11/2015, Pucci, non massimata; Sez. 4, n. 26247 del 30/05/2013, Magrini, Rv. 256948).
La Corte territoriale ha dimostrato che la possibilità di tale elusione era stata riscontrata dagli stessi operanti dello Spisal, autori degli accertamenti tecnici, tanto vero che era imposto al datore di lavoro di far arretrare le fotocellule, con conseguente maggiore distanza dal comando di attivazione, per impedirne il superamento.
D'altronde, l'AII. V al D. lgs. n. 81 del 2008, al punto 6.1, prevede che "le protezioni e i sistemi protettivi non devono essere facilmente elusi o resi inefficaci".
2. In ordine al secondo motivo di ricorso, relativo alla prevedibilità delle circostanze che hanno determinato l'evento lesivo del lavoratore, i giudici dì merito hanno affermato la non eccentricità e la non imprevedibilità del comportamento del lavoratore ed hanno evidenziato come il comportamento negligente della vittima costituisse un ordinario accadimento fortuito, preventivamente controllabile e intuibile in anticipo.
L'assunto del giudice d'appello è corretto e conforme al principio più volte affermato dalla Corte di legittimità in materia di infortuni sul lavoro, secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, la condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore, idonea ad escludere il nesso causale, non è solo quella che esorbita dalle mansioni affidate al lavoratore, ma anche quella che, nell'ambito delle stesse, attiva un rischio eccentrico od esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 5007 del 28/11/2018, dep. 2019, Musso, Rv. 275017); nello stesso senso, si è affermato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603).
Pertanto, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386).
A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di tutela approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Tali disposizioni, infatti, sono dirette a difendere il lavoratore anche da incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497).
Orbene, risulta evidente, in base ai principi richiamati, come evidenziato in maniera appropriata dalla Corte territoriale, non è possibile inquadrare nell'ambito delle condotte connotate da esorbitanza, il comportamento tenuto dal lavoratore, non essendosi realizzato in un ambito avulso dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto.
La Corte di merito, con motivazione logica ed immune da censure, ha evidenziato che il comportamento del lavoratore non poteva essere considerato eccentrico rispetto alle sue mansioni: la macchina era in movimento, l'operaio vi stava lavorando e i sistemi di blocco erano agevolmente eludibili, per cui il C. non aveva provveduto a predisporre un sistema per impedire materialmente l'accesso.
Con riferimento alla circostanza ipotizzata dalla difesa, secondo cui la macchina era ferma al momento del fatto, la Corte di appello ha condiviso le valutazioni del giudice di primo grado che spiegava esaurientemente le ragioni della ritenuta attendibilità dell'infortunato R.R. in ordine all'accurata descrizione della dinamica del sinistro. Il R.R., in particolare, sosteneva di aver eseguito la manovra su incarico di S.P., responsabile della linea, e di averla già effettuata più volte in precedenza, al fine di non interrompere il processo produttivo.
In ogni caso, è stato più volte chiarito che la contestazione originaria non concerne il mancato addestramento del lavoratore ad eseguire una manovra pericolosa o di avergli ordinato di eseguirla, bensì la messa a disposizione di un'attrezzatura inidonea ai fini della sicurezza, in quanto priva di un sistema in grado di impedire effettivamente l'accesso alle zone pericolose durante il funzionamento degli elementi mobili del macchinario.
3. In relazione al terzo motivo di ricorso, va premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nei procedimenti per reati colposi, il mutamento dell'imputazione, e la relativa condanna, per colpa generica a fronte dell'originaria formulazione per colpa specifica non comporta mutamento del fatto e non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza, qualora l'imputato abbia avuto la concreta possibilità di apprestare in modo completo la sua difesa in relazione ad ogni possibile profilo dell'addebito (Sez. 4, n. 53455 del 15/11/2018, Castellano, Rv. 274500).
Questa Corte ha altresì affermato che, nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l'aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell'obbligo di contestazione suppletiva di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e dell'eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell'art. 521 stesso codice (Sez. 4, n. 18390 del 15/02/2018, Di Landa, Rv. 273265).
Ciò posto sui principi operanti in materia, non risulta effettuata una sostanziale modificazione del fatto e che è stata assicurato ampiamente al C. l'esercizio di difesa in riferimento a tutti i profili di addebito.
La Corte territoriale comunque ha basato l'affermazione di responsabilità del C. non solo sulla mancata formazione ed informazione dell'operaio da parte del datore di lavoro, bensì su plurimi profili di colpa analiticamente descritti nel capo di imputazione sopra riportato. Il rilievo difensivo, pertanto, non risulta decisivo al fine di escludere la colpevolezza dell'imputato.
4. Va infine precisato che, al periodo massimo di prescrizione di anni sette e mesi sei previsto dall'art. 157 cod. pen. per il reato contestato, va aggiunto il periodo di sospensione della durata di mesi uno e giorni ventidue, per cui la scadenza di detto termine va fissata al 22 ottobre 2019. Ne consegue che, alla data della presente decisione, il reato non è prescritto.
5. Per le ragioni che precedono, il ricorso va rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.).
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 17 ottobre 2019.