Cassazione Penale Sez. 4 dell'11 gennaio 2023 n. 570
Infortunio mortale del lavoratore sito sul ponteggio in fase di smontaggio. Omessa dimostrazione della sussistenza di una "colpa di organizzazione" dell‘ente
Penale Sent. Sez. 4 Num. 570 Anno 2023
Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA
Relatore: DAWAN DANIELA
Data Udienza: 04/10/2022
1. La Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale cittadino in data 27/05/2019, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di V.B. per essere il reato a lui ascritto estinto per intervenuta morte del reo. Ha confermato nel resto l'impugnata sentenza con riguardo alla ritenuta responsabilità amministrativa della V. S.p.A., condannata alla sanzione amministrativa di euro 30.000,00, oltre al pagamento delle spese processuali.
2. V.B. era stato chiamato, unitamente a K.S. - amministratore unico della I. Master S.r.l. (ora I. Master S.r.l. in liquidazione) - a rispondere del reato di cui agli artt. 41, 589, commi 1 e 2, cod. pen., in relazione alle norme per la sicurezza dei lavoratori, perché, con condotte indipendenti e causalmente rilevanti nella produzione dell'evento, operando, mediante le rispettive imprese, presso il cantiere temporaneo per la realizzazione della Tangenziale Est Esterna di Milano (TEEM), sito all'altezza dello svincolo SP13 Passano con Bornago, cagionavano la morte di E.K., dipendente della I. Master S.r.l., per un "complesso traumatismo policontusivo produttivo di lesioni cranio encefaliche, oltre che di lesioni scheletriche e viscerali", per colpa generica e per inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro precisamente indicate nel capo di imputazione.
Mentre si trovava sul ponteggio lato nord della galleria, in fase di smontaggio, E.K. veniva colpito da un'asse di contenimento della gettata di cemento con la quale veniva realizzata la veletta e perdeva l'equilibrio. Essendo il ponteggio privo di dispositivi di sicurezza (sponde laterali) per la prevenzione del rischio di cadute dall'alto, precipitava dallo stesso da un'altezza di circa 10 metri, riportando le descritte gravissime lesioni che ne determinavano la morte dopo circa un'ora, riscontrata sul posto dei sanitari intervenuti (in Pessano con Bornago 11/04/2015).
2.1. La V.S.p.A. è stata ritenuta dai Giudici di merito responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per aver tratto vantaggio dalla condotta del reato attribuito all'amministratore unico, V.B.: vantaggio consistito nel risparmio derivante dall'impiego, presso il cantiere anzidetto, di lavoratori solo formalmente dipendenti di altra società (lron Master S.r.l.), in realtà sottoposti al potere direttivo di V. S.p.A. In particolare, nel risparmio derivante dalla mancata messa a disposizione dei lavoratori medesimi di idonei mezzi di protezione individuale, con specifico riferimento ai sistemi di protezione contro le cadute dall'alto, all'omessa formazione specifica ai lavoratori medesimi in materia di montaggio/ smontaggio dei ponteggi e all'assenza di un preposto a tali lavori effettivamente nominato e quindi retribuito dalla società. Condotte da cui derivava l'infortunio.
2.2. Alla V. S.p.A. era stata appaltata la realizzazione del lotto in questione. Questa aveva appaltato alla lron Master S.r.l. alcune lavorazioni nella galleria. Il M.llo Carmine Grimaldi, intervenuto nella immediatezza, riferiva di aver subito rilevato l'assenza di dispositivi di sicurezza e di aver direttamente verificato che l'infortunato, al quale i sanitari stavano praticando manovre respiratorie, non indossava l'imbragatura e che, nei pressi, non vi era alcun elmetto. Situazione peraltro riscontrata rispetto a tutti gli operai presenti. Il teste Mauro C., in servizio presso l'ATS Città Metropolitana di Milano, ricordava con precisione che il ponteggio, dal quale l'operaio era precipitato, era in fase di smontaggio e che, nella parte superiore, proprio dove stava lavorando il lavoratore deceduto, mancava la protezione della testata e correnti anti caduta, assenti anche a lato del ponteggio. Non vi era alcuna fune anticaduta né alcuna linea di sicurezza ad ancorarla. Egli aveva, altresì, accertato che non era debitamente documentata l'attività di formazione del personale, con particolare riferimento all'addestramento specifico richiesto per l'utilizzo di dispositivi individuali di protezione di terza categoria (salvavita, quale l'imbragatura di sicurezza). Il PIMUS (Piano di Montaggio Uso e Smontaggio) acquisito era apparentemente completo e idoneo, ma non risultava essere stato rispettato nei suoi contenuti, tanto che il ponteggio non corrispondeva alla descrizione riportata nel documento. In cantiere, poi, non vi era alcun preposto per la verifica della correttezza delle attività di smontaggio.
3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore di V. S.p.A. che solleva tre motivi, preceduti da una "premessa", concerne l'addebito di responsabilità amministrativa alla società V. ed il rapporto con le concorrenti responsabilità di terzi. Il difensore evidenzia che: la società in questione è ente di significative dimensioni, dotato di una struttura societaria articolata, con specifico conferimento di deleghe in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, dotata di un modello organizzativo adottato in epoca precedente all'evento e periodicamente aggiornato, nonché sottoposta al controllo di un organismo di vigilanza; la I. Master S.r.l. era una società di dimensioni molto più ridotte, priva di un modello organizzativo aziendale; tra le due società era in essere un contratto di subappalto per specifici interventi affidati dalla V. alla I. Master, rapporto che non era limitato quello specifico lotto dell'opera ove si è verificato l'infortunio ma che si inseriva in una collaborazione più ampia, coinvolgente anche altri cantieri edili; il lavoratore deceduto era dipendente della I. Master; all'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale ordinava la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica a carico di K.S. (amministratore unico della I. Master), ipotizzandosi il reato di falso, in ordine alle false attestazioni relative alla formazione dei propri dipendenti. Si tratta, come si vede, di una complessità oggettiva che non trova riscontro nella contestazione degli illeciti amministrativi la quale, invece, risulta formulata nei medesimi termini nei confronti di entrambe le società. L'identità di contestazione si traduce, in motivazione, nel difetto di accertamento in via autonoma, ex ante ed in concreto, della sussistenza degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa della V. 5.p.A. sotto tre distinti profili, oggetto delle odierne censure di seguito esposte.
3.1. Violazione di legge, nonché manifesta illogicità e contraddittorietà estrinseca della motivazione nella parte in cui ritiene sussistente un vantaggio in capo alla Vezzo/a; erronea applicazione dell'art. 5 d. lgs 231/2001, in ordine alla sussistenza del vantaggio in capo a questa società. Per poter essere logicamente compatibile con un vantaggio per l'ente, la condotta colposa dell'agente deve essere inserita in un contesto di violazione sistematica delle norme previdenziali, giacché soltanto il reiterato inadempimento alle regole cautelari è indicativo di una politica di impresa disattenta alla materia della sicurezza sul lavoro, tale da consentire una riduzione di costi con conseguente massimizzazione del profitto. Per logica conseguenza, la responsabilità dell'ente deve invece essere esclusa in tutti i casi in cui l'addebito colposo sia da attribuire ad una negligenza occasionale o ad una sostanziale inerzia del preposto. La Corte di appello vorrebbe ricavare la non occasionalità della condotta colposa dal dato di fatto che "lo smontaggio del cantiere doveva avvenire proprio entro l'11.4.2015" ma detta circostanza è dimostrativa dell'esatto contrario perché dà conto di una situazione contingente di per sé, isolata ed episodica, dalla quale nulla si può inferire né sulla generale gestione dell'opera né sulla politica aziendale della società in relazione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori. L'assunto contenuto in sentenza, secondo cui la società aveva affidato i lavori di subappalto alla I. Master senza averne verificato la professionalità e soprattutto l'idoneità delle persone impiegate al fine di contenere i costi, è in aperta contraddizione con quanto riferito, in dibattimento, dal dott. Camillo Franco, presidente dell'Organismo di Vigilanza. Questi aveva riferito che, dopo l'infortunio, si era recato sul cantiere per verificare come era stata gestita la qualifica delle ditte. Dal suo controllo, concentratosi soprattutto su come Vezzo/a avesse accertato l'idoneità tecnico professionale della ditta appaltatrice, era emerso che la I. Master aveva prodotto documentazione attestante l'idoneità tecnico professionale dei propri dipendenti. Si tratta di dato coerente con quanto poi emerso all'esito del giudizio di primo grado, con la già menzionata trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica per l'ipotesi del reato di falso attinente proprio alle certificazioni di formazione del lavoratore alle dipendenze di I. Master. Anche l'asserzione della sentenza per la quale la mancata previsione di un preposto effettivo equivaleva ad un risparmio di costi è contraddetta da quanto emerso nel giudizio di primo grado: nella motivazione della sentenza, invero, il Tribunale dà atto, in più passaggi, che per V. erano presenti in cantiere M.N. quale Direttore Tecnico e M.B. quale preposto.
3.2. Violazione di legge per erronea disapplicazione degli artt. 6 e 7, comma 2, d.lgs. 231/2001, in ordine alla valutazione di idoneità in concreto ed ex ante del modello organizzativo adottato dalla società V., prima della verificazione dell'infortunio; manifesta illogicità, mancanza (mera apparenza) e contraddittorietà intrinseca ed estrinseca della motivazione nella parte in cui ritiene inidoneo il modello organizzativo ai fini dell'esclusione della responsabilità dell'ente. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha operato un'automatica ed indebita logica induttiva che vorrebbe ricavare dalla mera verificazione dell'evento ex post la prova della inidoneità del modello organizzativo ex ante. La valutazione di inidoneità del modello organizzativo della Vezzo/a si riduce ad affermazione apodittica. Il rimprovero di genericità e inadeguatezza (in relazione alle specifiche attività svolte dalla V.B.), mosso dai Giudici di appello, si pone in contraddizione con l'analisi dettagliata del contenuto del modello organizzativo compiuta dalla sentenza di primo grado. Il confronto tra la decisione del Tribunale e quella della Corte di appello evidenzia, altresì, l'assoluta carenza di motivazione della sentenza impugnata e l'utilizzo di espressioni ampiamente apodittiche e prive di argomentazione strutturale.
3.3. Violazione di legge, nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione ed erronea disapplicazione dell'art. 11 d.lgs. 231/2001, nella parte in cui viene determinata la pena base della sanzione pecuniaria. Entrambi i Giudici di merito non hanno compiuto un'autonoma valutazione dei due diversi enti coinvolti, attesa l'identità della pena base (in misura sensibilmente distante dal minimo edittale). La sentenza impugnata con il presente ricorso nemmeno affronta le specifiche censure sollevate con l'atto di appello, così integrando un difetto assoluto di motivazione.
4. Il Procuratore Generale ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
1. Il ricorso è fondato.
2. L'addebito contestato alla V. S.p.A. attiene all'illecito amministrativo di cui all'art. 25-septies, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, per il reato presupposto di omicidio colposo ai danni di E.K., dovuto all'inosservanza di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, attribuibile all'amministratore unico V.B., in quanto commesso nel vantaggio così come individuato nel capo di imputazione.
Il Collegio rileva che, già dalla descrizione del capo d'accusa, non emerge con chiarezza il concreto profilo di responsabilità addebitato alla V. ai sensi della disciplina del decreto n. 231, avuto riguardo a quei "modelli di organizzazione e di gestione" richiamati dagli art. 6 e 7, comma 2, d.lgs. 231/2001, la cui efficace adozione consente all'ente di non rispondere dell'illecito, ma la cui mancanza, di per sé, non può implicare un automatico addebito di responsabilità.
Al riguardo, è utile richiamare alcune nozioni afferenti al sistema di responsabilità degli enti delineato dal decreto legislativo n. 231/2001, dando conto di alcuni principi giurisprudenziali sviluppati sul tema. È noto che sussistono due criteri d'imputazione oggettiva del fatto illecito all'ente in quanto tale, nel senso che l'illecito amministrativo a carico del soggetto collettivo si configura quando la commissione del reato presupposto (da parte delle persone fisiche che agiscono per conto dell'ente) sia funzionale ad uno specifico interesse o vantaggio a favore dell'ente stesso (art. 5 d.lgs. 231 cit.); si tratta di concetti alternativi e concorrenti tra loro, in quanto l'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; il vantaggio ha, invece, una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261113-01).
La Suprema Corte ha recentemente ribadito che la struttura dell'illecito addebitato all'ente risulta incentrata sul reato presupposto, rispetto al quale la relazione funzionale intercorrente tra reo ed ente e quella teleologica tra reato ed ente hanno unicamente la funzione di irrobustire il rapporto di immedesimazione organica, escludendo che possa essere attribuito alla persona morale un reato commesso sì da un soggetto incardinato nell'organizzazione ma per fini estranei agli scopi di questo (così, in motivazione, Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo. Nello stesso senso, più recentemente, Sez. 4, n. 18413 del 15/02/2022, CARTOTECNICA GRAFICA VICENTINA SRL, Rv. 283247 - 01).
Ciò consente di affermare che l'ente risponde per un fatto proprio e non per un fatto altrui, ma non pone al riparo da possibili profili di responsabilità meramente oggettiva, sicché il giudice di legittimità ha affermato "la necessità che sussista la c.d. 'colpa di organizzazione" dell'ente, il non avere cioè predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato; il riscontro di un tale deficit organizzativo consente una piana e agevole imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo. Grava sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza e l'accertamento dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell'interesse di questa; tale accertata responsabilità si estende dall'individuo all'ente collettivo, nel senso che vanno individuati precisi canali che colleghino teleologicamente l'azione dell'uno all'interesse dell'altro e, quindi, gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell'ente, che rendono autonoma la responsabilità del medesimo" (cfr. Sez. 6, n. 27735 del 18/02/2010, Scarafia, Rv. 247666).
Si tratta di un'interpretazione che attribuisce al requisito della "colpa di organizzazione" dell'ente la stessa funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, ) integrato dalla violazione "colpevole" (ovvero rimproverabile) della regola cautelare. Sotto questo profilo, la già citata Sez. 4, n. 32899/2021 ha efficacemente osservato che proprio l'enfasi posta sul ruolo della colpa di organizzazione e l'assimilazione della stessa alla colpa, intesa quale violazione di regole cautelari, convince che la mancata adozione e l'inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione prefigurati dal legislatore rispettivamente agli artt. 6 e 7 del decreto n. 231/2001 e all'art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 non può assurgere ad elemento costitutivo della tipicità dell'illecito dell'ente ma integra una circostanza atta ex lege a dimostrare che sussiste la colpa di organizzazione, la quale va però specificamente provata dall'accusa, mentre l'ente può dare dimostrazione della assenza di tale colpa. Pertanto, l'assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica' e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l'ente (c.d. immedesimazione organica "rafforzata"), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due.
Le superiori considerazioni spiegano le iniziali perplessità manifestate dal Collegio con riferimento alla struttura dell'illecito delineata nel capo di imputazione, il quale si limita ad addebitare all'ente un mero 'vantaggio' (derivante nel risparmio di spesa come più sopra precisato), senza specificare in positivo in cosa sarebbe consistita la "colpa di organizzazione" da cui sarebbe derivato il reato presupposto, che è cosa diversa dalla colpa eventualmente riconducibile al soggetto apicale cui è ascritto il reato.
La motivazione della sentenza impugnata offre, a sua volta, un percorso argomentativo carente in punto di responsabilità dell'ente, per certi versi sovrapponendo e confondendo i profili di responsabilità da reato dell'amministratore/datore di lavoro dai profili di responsabilità da illecito amministrativo della V.B. S.p.A. Ciò appare evidente nella parte in cui la sentenza impugnata, sostanzialmente, addebita alla società il fatto di non aver svolto alcuna adeguata valutazione sui fornitori, nonostante fosse prevista nel modello, e di non avere predisposto a norma il ponteggio nonostante la sua corretta edificazione fosse prevista nel PIMUS, documento che afferma essere stato sul punto assolutamente disatteso: profili colposi ascrivibili all'amministratore della società, quale datore di lavoro tenuto al rispetto delle norme prevenzionistiche, ma non per questo automaticamente addebitabili all'ente in quanto tale. I Giudici di merito, in definitiva, fondano la responsabilità amministrativa della V.B. sulla "genericità ed inadeguatezza” del modello organizzativo" senza tuttavia fornire positiva dimostrazione della sussistenza di una "colpa di organizzazione" dell‘ente. Deve, invero, ricordarsi che la tipicità dell'illecito amministrativo imputabile all'ente costituisce, per cosi dire, un modo di essere "colposo", specificamente individuato, proprio dell'organizzazione dell'ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all'ente di commettere il reato. In tale prospettiva, l'elemento finalistico della condotta dell'agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo "negligente" dell'impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall'ottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn). Ne consegue che, nell'indagine riguardante la configurabilità dell'illecito imputabile all'ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell'illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l'inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l'imputazione dell'illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l'ente risponde dell'illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui). Ciò rafforza l'esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell'ente) responsabile del reato.
In conclusione, la Corte territoriale non ha motivato sulla concreta configurabilità, nella vicenda in esame, di una colpa di organizzazione dell'ente, né ha stabilito se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. I giudici di merito, invece, avrebbero dovuto approfondire anche e soprattutto l'aspetto relativo al concreto assetto organizzativo adottato dall'impresa in tema di prevenzione dei reati della specie di quello di cui ci si occupa, in maniera tale da evidenziare la sussistenza di eventuali deficit di cautela propri di tale assetto, causalmente collegati con il reato presupposto.
3. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Milano.
Così deciso il 4 ottobre 2022