Cassazione Penale Sez. 4 dell'08 febbraio 2022 n. 4450
Ustioni durante il travaso dell'acido nitrico. Omesso periodico controllo della consistenza delle manichette utilizzate e utilizzazione di una tuta inidonea
Penale Sent. Sez. 4 Num. 4450 Anno 2022
Presidente: DOVERE SALVATORE
Relatore: ESPOSITO ALDO
Data Udienza: 05/10/2021
1. Con sentenza del 6 luglio 2009, il Tribunale di Vicenza aveva condannato F.F. alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi due di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della parte civile, con assegnazione di provvisionale di euro 20.000 provvisoriamente esecutiva oltre interessi legali e alla rifusione delle spese di costituzione in giudizio, in relazione al reato di lesioni personali colpose gravi di cui all'art. 590, commi primo e secondo, cod. pen. per avere cagionato - per colpa generica nonché per effetto della violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro sotto specificate, nella sua veste di datore di lavoro quale legale rappresentante della Unichimica s.r.l., incaricato con delega alla prevenzione degli infortuni, consentendo ai dipendenti l'utilizzo di manichette per il travaso dell'acido nitrico alla concentrazione del 65%, pericolose perché prive dei necessari requisiti di resistenza chimica nei confronti dell'aggressività dell'acido ed in assenza di misure che ne garantissero il buono stato di conservazione, cagionato all'operaio J.P. - intento a riempire dei fusti mediante una manichetta di travaso che si rivelava bucata - lesioni personali (causticazione arto inferiore sx ed in piccola parte anche all'addome) della durata di oltre 40 giorni di malattia, dovute alle ustioni riportate dal predetto operaio a seguito del contatto con l'acido nitrico - con l'aggravante di avere commesso il fatto con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni - in violazione dell'art. 374, comma 2, d.P.R. n. 547 del 1955 per avere mantenuto in funzione in azienda manichette di travaso pericolose, in quanto prive dei necessari requisiti di resistenza chimica nei confronti dell'aggressività dell'acido ed in assenza di misure che ne garantissero il buono stato di conservazione - in Torri di Quartesolo (VI) il 26 luglio 2005.
La Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del F.F. per intervenuta prescrizione e ha confermato le statuizioni civili.
In base alla ricostruzione dei fatti, lo J.P. e il suo collega B.A. erano intenti a travasare acido nitrico, in assenza di apposite cautele, quando vedevano fuoriuscire dalla manichetta di plastica, che era bucata, detto liquido, che attingeva entrambi, quanto alla persona offesa ustionandola sulla gamba e sull'addome, in quanto indossava un indumento inidoneo a proteggerlo dall'effetto corrosivo dell'acido e, diversamente dal collega, non provvedeva tempestivamente a detergere le parti nude del corpo interessate alla contaminazione e a togliere la tuta. C.F., autista che assisteva all'incidente, e il B.A., anch'esso infortunato, confermavano tali circostanze.
L'isp. Zanin Franco dello Spisal evidenziava le seguenti problematiche: a) l'esigenza di un esame tecnico trimestrale (e non semestrale come previsto dal datore di lavoro) della resistenza del materiale di composizione delle manichette all'effetto corrosivo dell'acido nitrico, al fine da poterle sostituire prima di cagionare danni (quali quelli verificatisi); b) la non resistenza all'acido nitrico delle manichette usate - in materiale resinoso siglato EPR - come emergente dalle tabelle allegate al prodotto dal fabbricante; c) l'omesso uso di una tuta resistente all'aggressione appartenente alla terza categoria da parte della persona offesa, più protettiva di quella di seconda categoria indossata dal lavoratore. A suo avviso, la qualificazione con indice 2 delle manichette non costituiva proprio la soluzione ottimale; a differenza della tuta indossata di seconda categoria, quella di terza categoria avrebbe potuto essere resistente rispetto ad un travaso di acido con una concentrazione pari a 65%. Precisava altresì che l'azienda aveva già a disposizione tale indumento di terza categoria, adottato per il travaso dell'acido fluoridico; conseguentemente aveva ritenuto di prescrivere anche per l'attività di travaso dell'acido nitrico a concentrazione pari a 65% la tipologia di indumenti di terza categoria (testimonianza di Zanin e verbale di prescrizione formulata ai sensi dell'art. 43, comma terzo, d.lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 758 del 1994, documento prodotto in udienza dal P.M.).
E' stata esclusa la rilevanza del comportamento dello J.P., che, in quanto" spaventato", non aveva dismesso immediatamente gli abiti intrisi di acido e non aveva provveduto ad un lavaggio ed alle cure adeguate, a differenza del compagno di lavoro che, grazie a tali precauzioni, non aveva riportato lesioni (i testi B.A. e C.F. riferivano che l'infortunato si era lavato con la tuta addosso). Il J.P. comunque si era recato in bagno nell'immediatezza e si era cambiato.
2. Il F.F., a mezzo del proprio difensore, ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Corte di appello, proponendo sei motivi di impugnazione.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen..
Si deduce la mancanza di correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza.
Contrariamente a quanto riportato nella sentenza impugnata, il capo di imputazione escludeva espressamente l'inidoneità dei mezzi di protezione individuali forniti (tuta), violazione pur originariamente oggetto di prescrizione ex art. 20, comma 1, d. lgs. n. 758 del 1994 impartita dallo Spisal. Tale fattore non poteva essere considerato a posteriori, al fine di sostenere il giudizio di colpevolezza dell'imputato, che poteva semmai riferirsi solo a fatti e comportamenti diversi (rispetto alla colpa specifica espressamente contestata nel capo di imputazione relativa alle "manichette" utilizzate) e mai considerati e/o valutati e/o non emergenti dagli atti processuali precedenti la formalizzazione del capo di imputazione. La mutazione del fatto storico descritto nel capo di imputazione e dei contenuti essenziali dell'addebito aveva determinato la nullità della sentenza.
2.2. Vizio di motivazione in relazione alla non ritenuta interruzione del nesso causale per il grave comportamento colposo dello J.P., posto in essere in violazione delle prescrizioni in materia di sicurezza, integrante interruzione del nesso causale; vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta impossibilità di paragonare la posizione dello J.P. con quella del collega B.A. per asserita mancata individuazione delle zone in cui il B.A. era stato investito dall'acido.
Si rileva che l'istruttoria svolta aveva consentito di individuare le parti del corpo del B.A. investite dall'acido travasato nonché di dimostrare la conformità del suo comportamento alle prescrizioni ricevute - svestizione immediata della tuta e lavaggio della propria persona con l'acqua - con ciò rimanendo illeso. Le due posizioni erano quindi paragonabili.
Le conseguenze subite dallo J.P., infatti, derivavano esclusivamente dall'ingiustificata violazione, da parte sua, di tali procedure e la sua condotta disattenta integrava l'interruzione del nesso di causalità tra la condotta ed i danni lamentati. La tuta indossata dal B.A. e dallo J.P. in occasione dell'infortunio era di tessuto marinara Meraklon, certificata CE ed idonea a proteggere il corpo dell'utilizzatore dallo sversamento di acido ritardandone il passaggio.
Le suindicate rigorose procedure in materia di utilizzo dei dispositivi di sicurezza individuale e di gestione di eventuali sversamenti di acido adottate in azienda erano state rispettate. Tali circostanze risultavano comprovate dalla documentazione depositata dalla difesa e dalle dichiarazioni dell'isp. Zanin, il quale aveva dato espressamente atto di aver accertato e verificato che l'azienda aveva adottato ed applicato rigorose procedure nel sistema di gestione della sicurezza ex d. l.vo n. 334 del 1999 in ordine ai comportamenti da adottare in ipotesi di sversamento di acidi, in ordine alle modalità operative dei travasi e sull'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale. Lo Zanin specificava, altresì, che l'azienda aveva svolto attività di informazione e formazione degli addetti, compreso lo J.P., con idonei corsi formativi.
La produzione difensiva dimostrava le numerose riunioni di formazione effettuate dall'azienda, alle quali partecipava lo J.P. che firmava il relativo registro di presenza, concernente, tra l'altro, i dispositivi di protezione individuale (DPI) da utilizzare, il modo d'uso e le procedure di travaso e la bonifica delle manichette.
Anche le prove orali, e nello specifico la testimonianza resa dallo J.P., confermavano tale specifica informazione e formazione in capo al medesimo, che riconosceva la circostanza e confermava le proprie firme nei verbali delle relative riunioni. Dalle risultanze istruttorie si evincevano le zone nelle quali il B.A. era stato investito dall'acido e segnatamente le parti intime e le cosce, ed il fatto che lo stesso B.A., rispettando le semplici procedure di sicurezza in essere in azienda, si era immediatamente tolto la tuta e lavato con abbondante acqua con ciò non riportando nessuna lesione. Nella sentenza, peraltro, non sono neppure indicati i punti nei quali lo J.P. era stato investito dall'acido.
2.3. Vizio di motivazione e contraddittorietà o manifesta illogicità della sentenza nella parte in cui si è ritenuta la tuta utilizzata dallo J.P. inidonea a proteggere il lavoratore. Erronea applicazione degli artt. 2087 cod. civ. e 2697 cod. civ..
Si rileva che la tuta fornita al J.P., essendo idonea a ritardare il passaggio dell'acido travasato, permetteva l'espletamento dell'operazione di travaso dell'acido e di proteggere il lavoratore in caso di sversamento della sostanza, ritardandone il passaggio. Il J.P. era stato informato e formato circa la natura e gli effetti ritardanti della tuta in dotazione anche in relazione alle specifiche procedure di sicurezza da adottare in ipotesi di sversamento.
Il datore di lavoro, quindi, aveva correttamente adempiuto ai propri obblighi, mettendo a disposizione del lavoratore DPI idonei ed informandolo relativamente alle loro caratteristiche e al loro uso. La violazione da parte dello J.P. delle prescrizioni in materia di sicurezza era gravemente colpevole, essendo egli stato preventivamente edotto sulla natura e sull'utilizzo dei DPI nonché sulle semplici procedure da adottare in ipotesi di sversamento.
Alla luce dell'esiguità dello sversamento (piccolissimo foro sulla manichetta), della diversa condotta tenuta dal collega B.A. e della spontaneità e naturalezza, oltre che specifica formazione, di un'operazione come quella di togliersi la tuta imbevuta di acido, era infondato quanto dedotto nella sentenza impugnata circa il presunto "spavento" dello J.P..
Lo J.P. avrebbe potuto evitare le conseguenze lesive se avesse agito come il B.A., che, attuando le semplici procedure di sicurezza, evitava qualsivoglia conseguenza pregiudizievole rimanendo illeso.
2.4. Vizio di motivazione laddove la sentenza ha ritenuto la manichetta utilizzata in materiale XLPE inidonea al travaso, richiamando erroneamente la tabella di resistenza chimica in atti e la testimonianza dell'ispettore Spisal dr. Zanin il quale diversamente da quanto indicato in sentenza aveva espressamente riconosciuto l'idoneità della manichetta in XLPE al passaggio dell'acido di cui è causa. Mancanza e erroneità ed illogicità della sentenza in relazione alla testimonianza del dr. Zanin e della documentazione in atti (tabella resistenza chimica manichette), totalmente equivocate e distorte dalla Corte di appello.
Si deduce che, riconosciuto che la sentenza di primo grado aveva errato nell'individuare la manichetta utilizzata in EBR per il travaso dai signori J.P. e B.A., la Corte di appello ha ritenuto adoperata la diversa manichetta in XLPE, ma l'ha comunque ritenuta assolutamente inidonea.
Al contrario, il compendio probatorio dimostrava che la manichetta utilizzata del tipo CHEM super Top in polietilene XLPE, di colore verde, era idonea a resistere al passaggio dell'acido nitrico. L'istruttoria svolta dalla Corte territoriale ha riguardato la manichetta in EBR erroneamente considerata in primo grado e solo in secondo grado ritenuta non dimostrata a favore di quella effettivamente utilizzata in XLPE; le prescrizioni impartite dallo Spisal, a seguito dell'infortunio in questione, come anche indicato nel capo di imputazione, non imponevano l'utilizzo di specifiche manichette con resistenza, limitandosi ad affermare quanto segue: "art. 374 comma 2 del d.P.R. n. 547/55 in quanto le manichette predisposte per il travaso dell'acido nitrico con concentrazione al 65% non possedevano i necessari requisiti di resistenza chimica e non erano state adottate misure per assicurarne un buono stato di conservazione e di efficienza".
Tali prescrizioni si riferivano innanzitutto alle diverse manichette in EPR erroneamente considerate utilizzate in occasione dell'infortunio e, in ogni caso, le stesse prescrizioni non imponevano l'utilizzo di manichette con classificazione di resistenza, limitandosi a rilevare semplicemente che quelle in EPR non possedevano i necessari requisiti di resistenza chimica.
La Corte di appello ha travisato la testimonianza dell'isp. Zanin dello Spisal. Egli, infatti, come emergente dalla stessa tabella di resistenza chimica richiamata, riferiva che la manichetta in XLPE era di livello massimo e che non esistevano alternative al suo utilizzo.
La Corte di merito ha omesso la motivazione in ordine alle misure adottate dall'azienda per garantire il buono stato di conservazione della manichetta e non ha considerato che la manichetta in XLPE utilizzata nello specifico era nuova, ancora avvolta dal nylon e che la fuoriuscita dell'acido era dipesa da un minuscolo forellino della manichetta stessa, accadimento verificabile con qualsiasi tipo di manichetta, anche con quelle con resistenza chimica di grado 1.
2.5. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2697 cod. civ. in tema di onere della prova sul danno lamentato dalla parte civile, e 1227 cod. civ. sul concorso del fatto colposo del danneggiato ai fini delle statuizioni civili adottate; errata applicazione dell'art. 539 cod. proc. pen. e mancanza di prova e motivazione sui presupposti in punto an e quantum per la concessione della provvisionale nella misura di euro 20.000; contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza risultante dal provvedimento impugnato e dagli atti del processo per mancanza del nesso causale tra condotta colpevole dello J.P. e lesioni lamentate; mancanza di prova dell'esistenza ed entità in punto an e quantum delle lesioni lamentate.
Si osserva che l'incidente verificatosi ai danni del B.A., investito dall'acido nelle cosce e parti intime e rimasto illeso in quanto aveva rispettato le procedure di sicurezza aziendali, era paragonabile a quello subito dal J.P., unico responsabile delle lesioni da lui stesso patite. Se lo J.P. avesse osservato il medesimo comportamento del B.A., avrebbe impedito l'evento dannoso evitando conseguenze lesive. Egli, peraltro, inescusabilmente, il giorno dell'infortunio non si recava presso il pronto soccorso, così determinando e/o aggravando le asserite conseguenze dannose.
Nella sentenza impugnata sono stati erroneamente ritenuti dimostrati i presupposti per la concessione della provvisionale, l'esistenza e l'entità delle lesioni invocate dallo J.P.. Non v'era prova, infatti, delle lesioni asseritamente patite, anche in relazione alla "ricaduta" del 6 gennaio 2006 (menisco del ginocchio sinistro) dopo la ripresa dell'attività lavorativa e sicuramente estranea all'infortunio in oggetto, come riconosciuto dal soggetto passivo in sede di esame in udienza.
La prova dell'esistenza e dell'entità delle lesioni invocate dallo J.P. è stata dedotta da un certificato Inail del 18 gennaio 2007, atto amministrativo (e non medico) tuttavia inutilizzabile ai fini della decisione sulle statuizioni civili, mentre mancavano un certificato del pronto soccorso e altri certificati medici in atti.
Il richiamo apodittico a "spese per farmaci" per giustificare le statuizioni civili era manifestamente indimostrato. Si trattava di esborsi per poche centinaia di euro rappresentate per lo più da scontrini fiscali privi di indicazioni del farmaco oggetto della spesa e non riconducibili allo J.P. e tanto meno ai fatti in questione. Altre ridotte spese riguardavano farmaci sconosciuti, non ricollegabili alle indimostrate lesioni invocate dallo J.P. (ad esempio, quella relativa ad una visita allergologica).
3. Con nota del 6 settembre 2021 la parte civile J.P. ha chiesto la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni fisici, morali e materiali, quantificabili in euro €. 83.062,13 oltre interessi e rivalutazione o nella diversa somma che si riterrà di giustizia, con il ristoro di ogni spesa ed esborso a seguito dei fatti per cui si procede.
1. Il ricorso è infondato.
2. Il primo motivo di ricorso, con cui si contesta la violazione del principio di cor relazione tra accusa e sentenza, è manifestamente infondato.
Sul punto occorre dar seguito al condivisibile orientamento di questa Corte, che ha escluso in simili fattispecie concrete la violazione del principio di correlazione di cui all'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619); ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza per ché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. U., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438, Golfarini, Rv. 269666).
L'esigenza sottesa a una tale lettura del principio di correlazione fra accusa e sentenza consiste nell'impedire, che attraverso rivendicazioni meramente formalistiche, l'imputato, abusando delle sue garanzie, pur posto in condizione di difendersi dall'ipotesi accusatoria, si trinceri dietro la non esatta corrispondenza letterale dell'espressione descrittiva del fatto.
Discorso diverso va svolto ove la descrizione dell'accadimento, visto in tutte le sue componenti, per il quale il soggetto viene condannato, venga a trovarsi in rapporto d'incompatibilità, eterogeneità o eccentricità, rispetto alla primigenia accusa, in quanto, pur avendo avuto l'imputato ovvio accesso a tutta la massa del materiale processuale utilizzabile, la sua difesa risulta essersi concentrata sul fatto siccome descritto nel capo d'imputazione, costituente specifica e precipua rappresentazione della vicenda di vita addebitata (Sez. 1, n. 28877 del 04/06/2013, Colletti, Rv. 256785).
Nel caso in esame, il Tribunale aveva condannato il F.F. per aver dotato il lavoratore di una manichetta deteriorata e non sostituita tempestivamente, fatto non espressamente contestato nel capo di imputazione.
Non è, tuttavia, neppure immaginabile un vulnus difensivo, in quanto la tematica in questione formava oggetto di trattazione nel corso dell'istruttoria dibattimentale, era poi ampiamente illustrata nella sentenza di primo grado e costituiva esplicitamente motivo di appello poi esaminato dalla Corte di appello.
L'affermazione di responsabilità penale, pertanto, non aveva trovato fondamento nell'accertamento di condotte illecite incompatibili, o anche solo eterogenee od eccentriche con quel che la difesa poteva ragionevolmente attendersi dal materiale processuale; l'imputato ha del resto potuto sul punto muovere le sue osservazioni critiche anche con il proposto ricorso, così escludendosi la sorpresa nella condanna intervenuta (Sez. 6, n. 422 del 19/11/2019, dep. 2020, Petittoni, Rv. 278093; Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, Adinolfi, Rv. 273204).
3. Sono infondati il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto tutti inerenti all'affermazione di responsabilità del F.F..
Occorre preliminarmente porre in risalto che, nel corso del giudizio, si è progressivamente realizzata una sorta di mutamento dell'oggetto del rimprovero rispetto all'originaria imputazione, anche se, come sopra esposto nel paragrafo precedente, ciò non determinava un difetto di correlazione tra accusa e sentenza.
Nel capo di imputazione si contesta che il datore di lavoro aveva consentito ai lavoratori l'utilizzo di manichette per il travaso dell'acido nitrico alla concentrazione del 65%, pericolose a causa della mancanza dei necessari requisiti di resistenza chimica nei confronti dell'aggressività dell'acido ed in assenza di misure idonee a garantire il buono stato di conservazione, e ciò si era concretamente manifestato nella bucatura della manichetta di travaso in plastica.
Alla luce di quanto emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale, il Tribunale ha individuato i seguenti profili di addebito al F.F.; a) l'omesso periodico controllo della consistenza delle manichette adottate, suscettibili per l'effetto del decorso del tempo di perdere la propria capacità di resistenza all'intenso effetto corrosivo dell'acido nitrico; b) l'utilizzazione di una tuta di seconda categoria destinata ad una protezione intermedia e non alla protezione dall'acido nitrico, per la quale sarebbe stata necessaria una tuta di terza categoria; c) il mancato rispetto della prescrizione dello Spisal, che prevedeva la sostituzione delle manichette dopo tre mesi e non dopo sei mesi;
d) l'esistenza di fori nelle manichette di travaso in plastica.
La Corte territoriale ha evidenziato la fondatezza del rilievo difensivo inerente all'idoneità delle manichette messe a disposizione del lavoratore, in quanto esso censurava dichiarazioni da ritenere inutilizzabili per violazione degli artt. 62 e 63 cod. proc. pen. (per il divieto di testimoniare dell'Isp. Zanin su dichiarazioni rese dal F.F. che doveva essere sentito con le garanzie di legge).
In ogni caso, la Corte di merito ha comunque riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, osservando che, anche a voler accedere alla tesi difensiva di una qualità superiore delle manichette (polietilene della tipologia XLPE), in realtà esse erano inidonee alla classificazione 1 (valutata di livello massimo dall'Isp. Zanin), bensì dovevano essere considerate di resistenza chimica 2, cioè suscettibili di "qual che attacco limitare l'esposizione".
Inoltre, nella sentenza impugnata si è riaffermata la tesi della minore protezione determinata dalla tuta di seconda categoria adoperata dalla persona offesa, in luogo di quella di terza categoria, che avrebbe potuto essere resistente rispetto ad un travaso di acido con concentrazione pari al 65%, per cui non poteva riconoscersi un'idoneità assoluta delle manichette. In proposito, l'ispettore Zanin dava altresì atto della disponibilità nell'azienda di tale indumento di terza categoria, che già era in uso ai fini del travaso dell'acido fluoridico; conseguentemente, aveva ritenuto di prescrivere anche per attività di travaso dell'acido nitrico a concentrazione pari a 65% la tipologia di indumenti di terza categoria (testimonianza dell'Isp. Zanin e verbale di prescrizione formulata ai sensi dell'art. 43, comma terzo, d.lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 758 del 1994, documento prodotto in udienza dal pubblico ministero).
Secondo la Corte territoriale, stante l'utilizzazione di uno strumento di lavoro, che non garantiva in maniera assoluta la sicurezza del travaso, proprio in relazione all'elevatissima concentrazione dell'acido nitrico versato, il F.F. avrebbe dovuto fornire dei mezzi di protezione individuali adeguati.
Sul datore di lavoro, infatti, grava l'obbligo di eliminare le fonti di pericolo per i dipendenti che debbano utilizzare macchinari sofisticati e di adottare tutti i più moderni strumenti offerti dalla tecnologia, al fine di garantire la sicurezza dei medesimi, sempre che il pericolo sia riconoscibile con l'ordinaria diligenza (Sez. 4, n. 41147 del 27/10/2021, Favaretto, Rv. 282065; Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli s.r.l., Rv. 275114).
Nella fattispecie, pertanto, correttamente, la formazione e l'informazione del lavoratore sono state ritenute insufficienti ad esonerare il datore di lavoro dalla responsabilità.
La responsabilità del F.F., peraltro, è stata riconosciuta in ragione del mancato espletamento di un esame tecnico trimestrale (e non semestrale come verificatosi nel caso in esame) della resistenza del materiale di composizione delle manichette all'effetto corrosivo dell'acido nitrico, nonostante la specifica diversa prescrizione dello Spisal, al fine da poterle sostituire prima del verificarsi dei danni.
Contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, la Corte di appello ha ben rappresentato il nesso causale tra le suesposte condotte omissive del datore di lavoro e l'infortunio.
3.1. Relativamente alle censure riguardanti il comportamento asseritamente abnorme ed esorbitante dello J.P., la Corte territoriale, con motivazione lineare e coerente, ha ritenuto attendibile la spiegazione fornita dal lavoratore, che aveva dichiarato di essersi spaventato per l'accaduto e di non aver inizialmente seguito la precauzione di togliersi la tuta (salvo provvedervi subito dopo in bagno, come esposto anche dal B.A.).
L'assunto del giudice d'appello è corretto e conforme al principio più volte affermato dalla Corte di legittimità in materia di infortuni sul lavoro, secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222); nello stesso senso, si è affermato che, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016, dep. 2017, Gerosa, Rv. 269603).
Pertanto, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386).
A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di tutela approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Tali disposizioni, infatti, sono dirette a difendere il lavoratore anche da incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli (Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Meda, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015, Palazzolo, Rv. 263497).
Orbene, in base ai principi richiamati, come altresì evidenziato in maniera appropriata dalla Corte territoriale, è impossibile inquadrare nell'ambito delle condotte connotate da abnormità ed esorbitanza il comportamento del lavoratore infortunato, in quanto attuato in un ambito non avulso dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto.
In ordine alla prevedibilità delle circostanze che hanno determinato l'evento lesivo del lavoratore, i giudici di merito, affermando la non eccentricità e la non imprevedibilità del comportamento del lavoratore, hanno evidenziato come la condotta dell'infortunato costituisse una comprensibile reazione all'accadimento improvviso.
4. Il quinto motivo di ricorso, con cui si deduce il difetto di motivazione in ordine al riconoscimento e alla quantificazione della provvisionale, è manifestamente infondato.
La Corte veneta ha ampiamente ed esaurientemente esposto le ragioni della non assimilabilità tra le posizioni dei due lavoratori, non essendo stato possibile verificare in quali zone e con quale ampiezza il B.A. fosse stato investito dall'acido, al fine di poter ascrivere la responsabilità esclusiva - o quantomeno parziale - dell'episodio lesivo allo J.P..
Occorre poi sottolineare che la condotta imprudente dello J.P. era stata tratteggiata in termini analoghi nelle due sentenze di merito, che entrambe evidenziavano la sua errata decisione dell'omessa dismissione della tuta, per cui non emergeva una differenza sostanziale di valutazione dell'incidenza causale del suo comportamento nella produzione dell'evento lesivo.
In ogni caso, persino se si intendesse rinvenire una diversità tra le due decisioni di merito, la diminuzione in sede di gravame della misura dell'apporto della parte tenuta a corrispondere la provvisionale non comporta una proporzionale riduzione della provvisionale medesima, trattandosi, infatti, di pronuncia discrezionale ed insindacabile, che non esige una circostanziata motivazione (Sez. 4, n. 34867 del 16/03/2017, Ruggiero, non massimata).
In ogni caso, non è possibile prospettare dinanzi a questa Corte questioni in ordine all'entità stabilita, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa, non suscettibile di passare in giudicato e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C. e G., Rv. 261536).
Non sussistono, peraltro, ragioni giuridiche per negare rilievo probatorio alla certificazione Inail, attestante l'entità dell' infortunio .
5. Per le ragioni che precedono, il ricorso va rigettato.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali (art. 616 cod. proc. pen.) e al rimborso delle spese del presente giudizio di legittimità, da liquidare, alla luce della relativa complessità delle questioni trattate, nell'importo di euro 3.000 oltre accessori come per legge.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione a J.P. delle spese di questo giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 5 ottobre 2021.