Cassazione Penale Sez. 4 del 12 luglio 2023 n. 30165
Norme antincendio per le attività alberghiere. Omessa manutenzione del camino e verificazione dell'incendio
Penale Sent. Sez. 4 Num. 30165 Anno 2023
Presidente: PICCIALLI PATRIZIA
Relatore: D'ANDREA ALESSANDRO
Data Udienza: 05/04/2023
1. Con sentenza del 16 marzo 2022 la Corte di appello di Trento, in parziale riforma della pronuncia di condanna emessa dal locale Tribunale in data 19 novembre 2020, ha assolto C.I., D.S. e V.P. dal reato loro ascritto, altresì riducendo la pena inflitta a C.F. nella misura di anni uno e mesi sei di reclusione.
1.1. Gli imputati erano stati sottoposti a giudizio per il reato di cui agli artt. 41, 423 e 449 cod. pen., per avere, ciascuno con condotta colposa indipendente, per imprudenza, imperizia e negligenza, nonché per inosservanza di specifiche norme tecniche di loro rispettiva competenza - relative: alla ristrutturazione non a norma del tetto, alla realizzazione del camino non a regola d'arte, al mancato rispetto delle compartimentazioni dei solai, all'illegittimo utilizzo del camino - causato l'incendio originato da fuoco di fuliggine dovuto alla combustione dei depositi di residui carboniosi all'interno del condotto per intubamento collegato al caminetto dell'Hotel Dolomiti di Moena, nella copertura del quarto e del quinto piano, esteso alle intercapedini dei piani sottostanti, rendendo necessario l'intervento dei Vigili del Fuoco a partire dalle ore 18.00 circa del 19 gennaio 2016 fino alle ore 1.30 del 20 gennaio 2016.
2. Con specifico riferimento alla posizione di interesse in questa sede, il giudice di secondo grado ha confermato la penale responsabilità di C.F., riconoscendolo colpevole di aver cagionato in via esclusiva l'incendio che aveva colpito gran parte dell'Hotel Dolomiti, creando pericolo per la pubblica incolumità, in ragione di una sua condotta omissiva ritenuta causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare la propagazione del fuoco - così interrompendo ogni nesso di causalità tra le azioni perpetrate dagli altri imputati e la realizzazione dell'evento. In particolar modo, il C.F. aveva utilizzato il camino, posto nel soggiorno al primo piano, in violazione del combinato disposto del punto 21 del D.M. 9 aprile 1994, con riferimento al punto 8.2.1., dove è prescritto che gli impianti di produzione di calore devono essere centralizzati, e del d.lgs. 19 agosto 2005, n. 192, modificato dalla legge 3 agosto 2013, n. 190, dove è stabilito che i caminetti sono assimilati agli impianti termici quando la potenza del focolare è maggiore o uguale a 5 KW, nonché, ancora, in violazione delle norme antincendio per le attività alberghiere di cui al decreto 14 luglio 2015, per il quale è consentita la presenza di stufe e caminetti nelle aree comuni per le attività con un numero di posti letto tra i 25 e i 50 (l'albergo aveva la licenza per 89 posti letto ed al momento dell'incendio vi era la presenza di 67 ospiti).
Il C.F. è stato, altresì, ritenuto responsabile di non aver provveduto, in violazione della normativa regolamentare vigente (normativa tecnica UNI 10683, Decreto del Presidente della Provincia 9 agosto 2012, n. 15-90/Leg. deliberazione del Comune di Moena n. 144/12 del 28 novembre 1985), alla corretta manutenzione del caminetto con cadenza annuale, così favorendo l'accumulo di fuliggine che ha, poi, cagionato l'innesco dell'incendio all'interno della canna fumaria, con investimento della copertura dell'edificio dell'Hotel Dolomiti.
3. Avverso l'indicata sentenza ha proposto ricorso per cassazione C.F., a mezzo del suo difensore, deducendo sei motivi di doglianza.
Con il primo è stata eccepita mancanza o apparenza della motivazione in ordine alle ragioni per cui la complessiva condotta colposa a lui ascritta sarebbe stata causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'incendio.
Il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata avrebbe omesso ogni rappresentazione delle ragioni giuridico-fattuali per cui la condotta contestatagli avrebbe integrato un'ipotesi ex art. 41, comma 2, cod. pen., di causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento, quindi escludendo il rapporto di causalità delle altrui condotte. Ciò appare tanto più rilevante a fronte dell'opposta decisione assunta da parte del primo giudice che, in virtù di una congrua e puntuale motivazione, aveva ritenuto, in conformità all'ipotesi contestata in imputazione, che vi fosse stato il concorrente apporto di plurime condotte indipendenti, ciascuna della quali aveva individualmente rappresentato un presupposto causale ai fini della verificazione dell'incendio.
Con la seconda doglianza il ricorrente ha dedotto mancanza o manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla sussistenza della ritenuta efficacia eziologica intercorrente tra la verificazione dell'incendio ed alcune condotte colpose, a lui attribuite, non oggetto di specifica contestazione in imputazione, in particolare riguardanti: la violazione di prescrizioni in materia di sicurezza del lavoro, con riferimento agli obblighi in tema di valutazione dei rischi e di formazione e di addestramento dei dipendenti, come previsto dagli artt. 17 e 18 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81; il ritardato rinnovo del certificato di prevenzione incendi, senza adeguamento alla normativa vigente.
A fronte di una specifica doglianza dedotta in appello, la Corte di merito avrebbe espresso una motivazione del tutto incongrua ed assertiva, inidonea a rappresentare le ragioni per cui vi sarebbe stato un nesso di causa tra la violazione delle indicate prescrizioni e verificazione dell'incendio, l'attivazione di corrette ed efficaci procedure antincendio produrre effetti positivi solo dopo la realizzazione dell'evento, attenendo in via esclusiva alla corretta gestione della emergenza successiva.
Con il terzo motivo è stata lamentata l'erronea applicazione del punto 21, con riferimento al punto 8.2.1., del D.M. 9 aprile 1994, del d.lgs. n. 192 del 2005 e del D.M. 14 luglio 2015, oltre ad inosservanza del D.P.R. n. 412 del 1993, eccependosi l'insussistenza del profilo di colpa specifica contestatogli in relazione al divieto di utilizzo del caminetto.
Avrebbe, in particolare, errato la Corte di merito nell'affermare che l'imputato avrebbe utilizzato il caminetto in spregio del divieto normativo imposto dal D.M. 9 aprile 1994, in quanto, così facendo, avrebbe parificato il camino agli impianti di produzione di calore non centralizzati - cui l'indicato divieto si riferisce - senza che ciò fosse stato in alcun modo previsto da nessuna disposizione specifica.
D'altro canto, l'art. 1 del D.P.R. 26 agosto 1993, n. 412, prevedeva, in modo espresso, che le stufe e i caminetti non fossero normativamente considerati nella categoria degli impianti termici.
Parimenti non corretta sarebbe, poi, la considerazione espressa dal giudice di secondo grado per cui la legge 3 agosto 2013, n. 90, modificando il disposto del d.lgs. n. 192 del 2005, avrebbe inserito i camini nella definizione di impianto termico - nel caso in cui la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare fosse stata maggiore o uguale a 5 KW - considerato che con il d.lgs. 10 giugno 2020, n. 48, tale inciso è stato soppresso, perciò non essendo più vigente.
Neppure pertinente, infine, sarebbe il richiamo effettuato in sentenza al D.M. 14 luglio 2015, che consente la presenza di caminetti nelle aree comuni per le attività alberghiere aventi un numero di posti letto compreso tra le 25 e le 50 unità, non potendosi da ciò solo ricavare il divieto di presenza di camini in alberghi, come l'Hotel Dolomiti, aventi un numero di posti letto maggiore di 50.
Per il ricorrente, in definitiva, non esisteva alcun divieto normativo di utilizzo dei caminetti nelle attività alberghiere come quella da lui gestita, non potendo essi essere assimilati agli impianti termici.
Con la quarta censura è stata dedotta inosservanza ed erronea applicazione di legge penale in relazione all'art. 43 cod. pen., sotto il profilo della non riconoscibilità del precetto cautelare in ordine alla sussistenza del divieto normativo di utilizzo del camino, con inesigibilità della condotta alternativa doverosa e conseguente carenza dell'elemento soggettivo del reato.
A fronte di una normativa così poco chiara, infatti, non gli potrebbe comunque essere rimproverata la condotta colposa contestatagli, trattandosi di errore scusabile per ignoranza incolpevole del precetto, altresì essendo stato rassicurato al tempo dal suo coimputato B.M.- professionista incaricato di predisporre la documentazione necessaria ai fini del rilascio della certificazione di prevenzione degli incendi - sulla legittimità dell'utilizzo del caminetto.
Il ricorrente lamenta, inoltre, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, per essere stato assolto il B. proprio in ragione della manifesta assenza di chiarezza della normativa di disciplina dell'utilizzo del camino, rispetto alla quale sia il perito che i consulenti tecnici di parte avevano offerto soluzioni interpretative difformi. Sarebbe paradossale, pertanto, che lo stesso argomento utilizzato per escludere la penale responsabilità di un professionista come il B. non potesse essere utilizzato a vantaggio di un soggetto del tutto privo delle medesime conoscenze tecniche, come il C.F..
Con il quinto motivo è stata eccepita erronea applicazione dell'art. 41 cod. pen. e manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla sussistenza del nesso di causalità tra la contestata omessa manutenzione del camino e la verificazione dell'evento incendiario.
Il ricorrente lamenta, in particolare, carenza probatoria in ordine alla ricorrenza dell'indicato nesso di causa, anche considerata l'apprezzata sufficienza eziologica dei difetti strutturali della coibentazione della canna fumaria ai fini sia dell'accumulo di fuliggine che della propagazione dell'incendio.
Dall'istruttoria dibattimentale non sarebbe scaturita prova alcuna riguardo al fatto che l'accumulo di fuliggine fosse stato provocato dalla contestata omessa manutenzione del camino. Non sarebbe risultato comprovato, in particolare, che l'effettuazione della pulizia annuale potesse essere in grado di impedire la realizzazione di incendi di fuliggine come quello divampato presso l'Hotel Dolomiti, trattandosi di un'eventualità piuttosto comune.
Il consulente della difesa, tra l'altro, aveva evidenziato diversi aspetti di natura tecnica - ed in particolare la circostanza per cui l'accumulo di fuliggine sarebbe stato il risultato di una non corretta coibentazione della canna fumaria, che aveva poi comportato anche la successiva propagazione delle fiamme - non adeguatamente vagliati dalla Corte di merito. Non sarebbe stato verificato, cioè, se l'accumulo di fuliggine fosse stato dovuto ad altre cause, ed in particolare se avesse assunto rilievo causale esclusivo, ai fini della verificazione dell'incendio, la non adeguata coibentazione del condotto per intubamento collegato al caminetto.
Con l'ultima censura, infine, il ricorrente ha lamentato inosservanza o erronea applicazione di legge penale in relazione all'art. 62-bis cod. pen., oltre a mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riguardo all'omesso riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Sarebbe, in particolare, errata la motivazione con cui la Corte territoriale ha genericamente negato la ricorrenza di elementi di particolare rilievo ai fini del riconoscimento del beneficio invocato, ove si considerino il comportamento tenuto dall'imputato nell'immediatezza dei fatti, in cui si era adoperato per spegnere da solo l'incendio, a rischio della propria incolumità, nonché la successiva condotta collaborativa mantenuta nei riguardi della polizia giudiziaria.
4. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.
5. Il difensore ha depositato successiva memoria con conclusioni scritte, in cui ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
1. Il ricorso non è fondato e deve, pertanto, essere rigettato.
2. In primo luogo priva di fondamento è l'introduttiva doglianza, con cui il C.F. ha eccepito difetto di motivazione in ordine all'individuazione delle ragioni per cui la condotta colposa a lui ascritta sarebbe stata causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'incendio, ai sensi dell'art. 41, comma 2, cod. pen., con esclusione di ogni nesso di causalità imputabile alle condotte perpetrate dagli altri prevenuti, come invece ritenuto dal decidente di primo grado, per cui l'evento incendiario era stato determinato dal concorrente apporto di plurimi comportamenti indipendenti, ciascuno costituente singolo presupposto causale della relativa sua verificazione.
2.1. La Corte di appello ha, invero, debitamente tenuto conto di tali difformi conclusioni rese da parte del primo giudice, nonché di tutte le evidenze probatorie acquisite nel corso del giudizio, tuttavia esplicando, in modo logico e adeguato, le ragioni per cui ha riconosciuto, in via esclusiva, la responsabilità del C.F., evidenziando, sia pur nella sintesi, i motivi per cui la sua condotta ha interrotto il nesso eziologico tra gli altrui comportamenti e l'evento, avendo l'incendio «avuto origine da un fuoco di fuliggine, cioè dalla combustione dei depositi carboniosi accumulatisi nel tempo per omessa manutenzione, lungo le pareti della canna fumaria del caminetto che non poteva essere utilizzato». Ove il C.F. avesse rispettato il divieto di utilizzo del camino, ovvero ne avesse garantito una corretta manutenzione annuale, l'evento incendiario non si sarebbe verificato, o comunque non avrebbe assunto le dimensioni raggiunte, per l'effetto non acquisendo alcun rilievo causale le successive condotte omissive contestate singolarmente ai coimputati.
In tal maniera, pertanto, il secondo giudice si è adeguatamente uniformato al principio di diritto espresso dal Supremo Collegio, per cui, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr., in questi termini: Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679-01).
2.2. In ogni modo, a prescindere dalla decisività della superiore argomentazione, il Collegio rileva come al ricorrente non pertenga neanche un reale specifico interesse in ordine al dedotto motivo di doglianza, atteso che l'eventuale concasualità delle altrui condotte ai fini della verificazione dell'evento non sarebbe, comunque, sufficiente ad esonerarlo da responsabilità, trattandosi di condotte che, tutte in maniera autonoma, avrebbero contribuito - per quanto dettato nell'originaria contestazione - a cagionare la verificazione dell'evento.
Nessun vantaggio potrebbe essere, poi, acquisito neanche sotto il profilo della determinazione della pena, considerato che in primo grado, dove pure vi era stato il riconoscimento della penale responsabilità di tutti gli imputati, la sanzione inflitta al C.F. era stata addirittura di entità maggiore rispetto a quella applicatagli nel secondo giudizio.
3. Parimenti non fondato è il secondo motivo, con cui è stato dedotto vizio di motivazione per avere la Corte di merito ritenuto la ricorrenza di un nesso eziologico tra la causazione dell'incendio e il mancato rispetto di alcune specifiche prescrizioni non indicate in imputazione (violazione di norme in materia di sicurezza del lavoro, con riguardo agli obblighi in tema di valutazione dei rischi e di formazione e addestramento dei dipendenti; ritardato rinnovo del certificato di prevenzione incendi), in quanto tutte afferenti alla successiva fase della gestione dell'incendio, quindi non essendo causalmente rilevanti rispetto al momento della sua effettiva propagazione - oggetto di specifica imputazione in questa sede-.
Dalla lettura della sentenza impugnata è dato evincere, infatti, come la Corte di appello, sia pur dando debitamente conto delle varie inadempienze perpetrate da parte del C.F. - che comunque, pur avendo avuto rilevanza neutra rispetto alla propagazione dell'incendio, possono avere avuto incidenza negativa in ordine alla determinazione dei conseguenti danni, che il rispetto delle indicate previsioni avrebbe potuto contenere - non ha incentrato la penale responsabilità dell'imputato sugli indicati aspetti, bensì, come sin da subito indicato e poi nel prosieguo esplicato, sulla duplice condotta di avere utilizzato il camino nonostante il divieto imposto dal D.M. 9 aprile 1994 e di non aver provveduto alla manutenzione della condotta di fumo, così ponendo in essere un comportamento di rilievo ex art. 41, comma 2, cod. pen., costituente causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'incendio.
Tale motivazione è stata resa in maniera del tutto adeguata e logica, alla stregua di una compiuta valutazione delle emergenze processuali, come tale non risultando, conseguentemente, sindacabile in questa sede di legittimità.
4. Per il Collegio è, poi, infondata anche la terza censura eccepita da parte del C.F., con cui è stata lamentata l'insussistenza di una sua condotta violativa del divieto di utilizzo del camino, come previsto dal D.M. 9 aprile 1994. A dire del ricorrente, infatti, il caminetto non costituirebbe un impianto di produzione di calore, in quanto non elencato tra gli impianti termici dall'art. 1 del D.P.R. n. 412 del 1993, per cui nessun esplicito divieto di utilizzo poteva ritenersi gravante nei suoi confronti.
Orbene, a fronte dell'indicata doglianza, il Collegio rileva, invece, come, in termini opposti, sia da ritenersi giuridicamente corretta la ricostruzione normativa operata da parte della Corte territoriale.
Ed infatti, alla stregua di quanto previsto dal punto 8.2.1. (espressamente dedicato agli "Impianti di produzione calore"), come richiamato dal punto 21, del D.M. 9 aprile 1994, «Gli impianti di produzione di calore devono essere di tipo centralizzato. I predetti impianti devono essere realizzati a regola d'arte e nel rispetto delle specifiche disposizioni di prevenzione incendi».
L'allora vigente d.lgs. 19 agosto 2005, n. 192, come modificato dalla legge 3 agosto 2013 n. 90, aveva introdotto poi, all'art. 2 lett. 1-tricies, la specificazione per cui è definibile come impianto termico un «impianto tecnologico destinato ai servizi di climatizzazione invernale o estiva degli ambienti, con o senza produzione di acqua calda sanitaria, indipendentemente dal vettore energetico utilizzato, comprendente eventuali sistemi di produzione, distribuzione e utilizzazione del calore nonché gli organi di regolarizzazione e controllo. Sono compresi negli impianti termici gli impianti individuali di riscaldamento. Non sono considerati impianti termici apparecchi quali: stufe, caminetti, apparecchi di riscaldamento localizzato ad energia radiante; tali apparecchi, se fissi, sono tuttavia assimilati agli impianti termici quando la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare è maggiore o uguale a 5 KW».
Ed allora, ritenuta la vigenza delle suddette previsioni normative, ed in applicazione coordinata e sintetica dei relativi dettati testuali, appare logicamente e giuridicamente corretto affermare che nei confronti del C.F. vigesse un inequivoco divieto di utilizzo del camino, considerato che trattavasi di un impianto di produzione di calore fisso, non centralizzato, con potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare maggiore o uguale a 5 KW.
4.1. Rispetto all'indicata conclusione, conforme all'esegesi seguita dalla Corte di merito, di nessun pregio è, poi, la censura difensiva con cui l'imputato ha eccepito che sarebbe irrilevante l'effettuato richiamo alla disciplina introdotta dalla I. n. 90 del 2013, a modifica del d.lgs. n. 192 del 2005, con parificazione del camino agli impianti termici - nel caso in cui la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare fosse stata maggiore o uguale a 5 KW - considerato che tale inciso sarebbe stato
soppresso dal d.lgs. 10 giugno 2020, n. 48, quindi non essendo oggi più vigente.
Neanche tale conclusione, infatti, è da ritenersi corretta, considerato che se è vero che nella nuova definizione di impianto termico prevista dal novellato art. 2 lett. 1-tricies d.lgs. n. 192 del 2005 non è stato fatto più riferimento ai camini come impianti termici, è anche vero che, stante la genericità di tale dizione, di certo causativa di dubbi interpretativi, l'intervento chiarificatore disposto dall'Agenzia delle Entrate al punto 4.5.1. della Circolare n. 30/E del 22 dicembre 2020, ha consentito di precisare, in modo inequivoco, che «per gli interventi realizzati a pç1rtire dall'll giugno 2020, data di entrata in vigore del citato d.lgs. 10 giugno 2020 n. 48, per effetto della nuova definizione normativa di impianto termico, le stufe a legna o a pellet, anche caminetti e termocamini, purché fissi, sono considerati "impianto di riscaldamento"», nonché - con riguardo a quanto di specifico interesse in questa sede - che «per gli interventi realizzati prima di tale data, invece, in base alla previgente disposizione, opera l'assimilazione agli impianti termici delle stufe, caminetti, apparecchi per il riscaldamento localizzato ad energia radiante, scaldacqua unifamiliari; se fissi e quando la somma delle potenze nominali del focolare degli apparecchi al servizio della singola unità immobiliare è maggiore o uguale a 15 KW (cfr. Risoluzione 12 agosto 2009 n. 215/E)».
5. Stesso giudizio di non fondatezza deve essere espresso, quindi, con riferimento al quarto motivo di ricorso, non potendosi ritenere sussistente, nei confronti del C.F., l'invocato errore scusabile, determinato da ignoranza incolpevole del precetto cautelare riguardante il divieto normativo di utilizzo del camino, causato dalla eccessiva complessità della disciplina di riferimento, con conseguente mancata ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato.
Ed infatti, la pura e semplice ignoranza dell'agente circa i contenuti della normativa di settore, nonché del carattere illecito della sua condotta, non è idonea ex se ad escludere la sussistenza della colpa normativamente richiesta per la punibilità dell'imputato.
A seguito della sentenza 23 marzo 198 , n. 364 della Corte Costituzionale, secondo la quale l'ignoranza della legge penale, se incolpevole a cagione della sua inevitabilità, scusa l'autore dell'illecito, vanno stabiliti i limiti di tale inevitabilità. Per il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell'ordinaria diligenza, al cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia. Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell'illecito anche in virtù di una "culpa levis" nello svolgimento dell'indagine giuridica. Per l'affermazione della scusabilità dell'ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l'agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell'interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (così, espressamente, Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885-01). Ne discende, pertanto, che ai fini della scusabilità dell'ignoranza della legge penale sia necessario, quanto meno, l'assolvimento, con il criterio dell'ordinaria diligenza, del cosiddetto "dovere di informazione", attraverso l'espletamento di un qualsiasi utile accertamento volto a conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.
Ciò, nel caso di specie, non sarebbe stato effettuato, atteso che, per come logicamente e congruamente ritenuto dalla Corte territoriale, il C.F. non avrebbe adempiuto al necessario obbligo di conoscenza dei precetti normativi regolanti l'utilizzo dei camini, ponendo in essere un dovere di diligenza ancor più elevato e indispensabile tenuto conto del fatto che costui esercitava professionalmente l'attività di albergatore, cui inerisce, in modo particolarmente incisivo, la normativa caratterizzante le disposizioni violate.
Né, a fronte di tale aspetto, può essere ritenuta sufficiente la mera circostanza, peraltro ritenuta non adeguatamente comprovata dai giudici di appello, per cui il prevenuto sarebbe stato rassicurato da B. M. - professionista incaricato di predisporre la documentazione necessaria ai fini del rilascio della certificazione di prevenzione degli incendi - circa la possibilità di utilizzare il camino, atteso che, in termini contrari, appare del tutto adeguata e congrua la considerazione espressa dalla Corte di merito per cui il C.F., comunque, «nella sua qualità, facendo ricorso a regole elementari di diligenza, avrebbe dovuto conoscere i precetti a lui imposti».
Del tutto insussistente, infine, è la presunta contraddittorietà motivazionale ravvisabile tra l'indicata valutazione e l'intervenuta assoluzione del S., proprio in ragione dalla ritenuta manifesta assenza di chiarezza della normativa di disciplina del settore, considerato che trattasi di soggetti cui erano state contestate imputazioni difformi tra loro, aventi ad oggetto condotte differenti, riferentesi a distinte posizioni di garanzia, per le cui considerazioni rese nei confronti dell'uno non possono essere sic et simpliciter estese nei riguardi dell'altro imputato.
6. Ancora priva di pregio è, poi, la censura con cui il ricorrente ha eccepito l'insussistenza del nesso causale tra l'omessa manutenzione del camino e la verificazione dell'incendio, sul presupposto che non risulterebbe comprovato che l'effettuazione della prevista pulizia annuale avrebbe potuto impedire l'evento. A dire del C.F., infatti, altre sarebbero state le cause originanti del fuoco, in particolar modo da individuarsi nei ravvisati difetti strutturali della coibentazione della canna fumaria.
Orbene, a fronte di tale doglianza, il Collegio rileva come con essa sia stato tematizzato un aspetto fondato sulla rappresentazione di ricostruzioni eziologiche alternative - come, per l'appunto, la circostanza che l'incendio abbia tratto origine da una non adeguata coibentazione del condotto per intubamento collegato al caminetto - senza, tuttavia, interloquire sulle ragioni fondanti la responsabilità del prevenuto, così come specificamente individuate da parte dei giudici di appello.
Nel ricorso, cioè, si sarebbe tentata di escludere la colpevolezza dell'imputato incentrando l'attenzione su fattori riguardanti la successiva fase di utilizzo del camino, laddove, invece, il momento configurativo della responsabilità del C.F. è stato, soprattutto, individuato in una condotta colposa realizzata antecedentemente all'accensione del fuoco nel caminetto, che, per l'appunto, non si sarebbe dovuta verificare.
In ogni modo, a prescindere dall'indicata considerazione, la Corte territoriale ha espressamente analizzato l'eccepito aspetto, nello specifico affermando che, «quanto alla scarsa coibentazione della canna fumaria, ipotizzata dal giudice di primo grado, deve osservarsi come nella impugnata sentenza non vi sia alcun riferimento ai valori specifici esigibili; neppure l'ing. M. ha effettuato e rappresentato un calcolo preciso dello strato di lana di roccia eventualmente esigibile in luogo di quello applicato dalla ditta costruttrice».
6.1. D'altro canto, la prospettata questione, di fatto afferendo alla ricostruzione della dinamica di verificazione dell'incendio e all'interpretazione delle prove assunte, finisce per attenere a questioni non passibili di valutazione in questa sede, atteso che, in tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi - dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti - e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così, tra le tante, Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv, 203428-01).
Esula, quindi, dai poteri della Corte la rilettura della ricostruzione storica dei fatti posti a fondamento della decisione di merito, dovendo l'illogicità del discorso giustificativo, quale vizio di legittimità denunciabile mediante ricorso per cassazione, essere di macroscopica evidenza (cfr. Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794-01; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, Rv. 207944-01).
Sono precluse al giudice di legittimità, in sostanza, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr., fra i molteplici arresti in tal senso: Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601- 01; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482-01; Sez. 1, n. 42369 del 16/11/2006, De Vita, Rv. 235507-01). E', conseguentemente, sottratta al sindacato di legittimità la valutazione con cui il giudice di merito esponga con motivazione logica e congrua, come avvenuto nel caso di specie, le ragioni del proprio convincimento.
7. Infine destituita di fondamento è anche la conclusiva doglianza, con cui il ricorrente ha lamentato la mancata concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, ritenendosi adeguata la motivazione con cui la Corte di appello ha ritenuto l'insussistenza di elementi di segno positivo idonei a consentire il riconoscimento del beneficio.
Trattasi di motivazione che, pur nella sua sinteticità, ben rappresenta e giustifica, in punto di diritto, le ragioni per cui il giudice di secondo grado ha ritenuto di negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, palesare vizi logici e ponendosi in coerenza con le emergenze processuali acquisite, con motivazione, pertanto, non sindacabile in questa sede di legittimità (Sez. 6, n. 42688 del 24/09/2008, Caridi e altri, Rv. 242419-01).
D'altro canto - in particolare dopo la modifica dell'art. 62-bis cod. pen. disposta dal d.I. 23 maggio 2008, n. 2002, convertito con modifiche dalla I. 24 luglio 2008, n. 125 - è assolutamente sufficiente che il giudice si limiti a dare conto, come avvenuto nella situazione in esame, di avere valutato e applicato i criteri ex art. 133 cod. pen. In tema di attenuanti generiche, infatti, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di tale adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da imporre un obbligo per il giudice, ove ritenga di escluderla, di doverne giustificare, sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (così, tra le tante, Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381-01). In altri termini, l'obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (cfr. Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace ed altro, Rv. 245241-01).
8. Ne consegue, pertanto, il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 5 aprile 2023