Sicurezza lavoro

Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 11037 | 28 Marzo 2022

Sentenze cassazione penale

Cassazione Penale Sez. 4 del 28 marzo 2022 n. 11037 

Apertura di una pesante latta di tonno con l'utilizzo di guanti in lattice invece di guanti anti-taglio. Pericolosa prassi diffusa e deleghe di funzione in una struttura piramidale complessa

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Penale Sent. Sez. 4 Num. 11037 Anno 2022
Presidente: FERRANTI DONATELLA
Relatore: PEZZELLA VINCENZO
Data Udienza: 23/02/2022

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti dell'odierno ricorrente S.M., con sentenza del 1/10/2020, assolto il coimputato B.O., confermava la sentenza emessa in data 10/10/2018 dal Tribunale di Monza che lo aveva condannato, concessegli le circostanze attenuanti generiche, (considerato l'integrale risarcimento del danno in favore della persona offesa) ritenute equivalenti alle contestate aggravanti alla pena di euro trecento di ammenda per il del reato p. e p. dall'art. 113, 590 co. 1, 2 e 3 cod. pen. in relazione alle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro per ciascuno di essi di seguito specificate, per avere, in cooperazione tra loro, con condotte indipendenti e causalmente rilevanti nella produzione dell'evento, cagionato alla dipendente P.L. gravi lesioni personali consistite in "FDT 4° E 5° DITO MANO SX CON INTERESSAMENTO TENDINEO MANO SINISTRA'; da cui derivava una malattia con incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo pari a gg. 192 con l'indebolimento permanente dell'organo dell'apprensione valutato in misura del 6%, per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, cosicché, mentre P.L., indossando dei semplici guanti in lattice, svolgeva l'operazione di apertura di una pesante latta di tonno e svuotamento del contenuto della predetta latta (del peso di Kg 1, 7 circa) in un altro contenitore, a causa dello scivolamento della latta dalle mani, si procurava le gravi lesioni personali sopra indicate, condotta consistita, in particolare:
- per B.O. , nella sua qualità di Datore di Lavoro della Soc. SODEXO ITALIA S.P.A. (omissis, essendo stato assolto in secondo grado)
- per S.M., nella sua qualità di Dirigente con procura speciale della Soc. SODEXO ITALIA S.P.A. con sede legale in Via F. OMISSIS, nella violazione di cui all'art. 18 co. 1 lett. F e art. 77 co. 4 lett. D del D.lgs nr. 81/08 per non aver rispettato le disposizioni ivi imposte (art. 18 co. I. lettera F del D.lgs nr. 81/08) secondo cui "il datore di lavoro ha l'obbligo di richiedere ai singoli lavoratori l'osservanza sull'uso dei dispositivi di protezione collettiva ed individuale (in questo caso i guanti anti-taglio) messi a loro disposizione" e l'obbligo, altresì, per il datore di lavoro di fornire ai lavoratori i necessari ed idonei DPI ad uso personale (art. 77 co. 4 lettera D del D.lgs nr. 81/08) "precisando che "ciascun lavoratore deve indossare solo i guanti a lui consegnati (art. 18 co. I. lett. D) ". Nella fattispecie in causa, la tabella relativa alla valutazione rischi sulla apparecchiatura in uso alla lavoratrice (vedasi all. 15 - lettera k della relazione tecnica di infortunio), segnatamente un apriscatole elettrico, indica che la misura di prevenzione e protezione da attuare nell'uso della predetta apparecchiatura sia l'utilizzo di guanti di protezione contro il rischio da taglio, che dovevano essere forniti dal datore di lavoro in forma individuale e non collettiva (vedasi all. 18 - scheda di consegna dei DPI di ciascun lavoratore) con l'obbligo da parte del predetto di vigilare affinché tali DPI venissero effettivamente utilizzati da ciascun lavoratore.
Con le circostanze aggravanti della lesione grave per durata della malattia superiore ai 40 gg ed indebolimento permanente di un organo, nonché della violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.
In Cinisello Balsamo in data 23.03.2015
2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, S.M., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen.
Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione dell'art 40, co. 2, 43, co. 3 e 590 co. 1, 2, 3 cod. pen. anche in relazione alle norme sulla prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro e, in particolare, in relazione all'art 18, co. 1 , lett. f) D.lgs 81/08 nonché mancanza, illogicità manifesta e mancanza di motivazione.
Ripercorse le vicende processuali e ricordate le circostanze dell'infortunio sul lavoro che ebbe ad interessare la lavoratrice, il difensore ricorrente analizza il ruolo del preposto e i casi possibili di esclusione della sua responsabilità, alla luce della giurisprudenza, ma anche della dottrina, laddove le carenze riscontrate riguardino la fase esecutiva della prestazione e non coinvolgano scelte legate alle sfere di responsabilità del garante sovraordinato.
Per il ricorrente la previsione di una contemporanea responsabilità del dirigente e dei preposti dotati di delega esecutiva per l'omessa applicazione di una regola cautelare antinfortunistica sarebbe frutto di un'errata equivalenza delle due posizioni di garanzia e determinerebbe, conseguentemente, un'ingiustificata duplicazione delle responsabilità. In altri termini, il fatto che il giudice di secondo grado abbia tralasciato ogni valutazione in concreto circa la previsione di un sistema di deleghe esecutive da parte del dirigente, limitandosi a ritenere sussistente tout court una responsabilità del S.M. per violazione delle norme antinfortunistiche in virtù della posizione apicale dallo stesso rivestita, determina sia un'erronea applicazione della legge penale in materia, sia un'evidente carenza di motivazione.
Quanto al contenuto del profilo di colpa ascritto al S.M., ovvero al mancato controllo sull'effettivo utilizzo da parte dei lavoratori del guanto anti-taglio assegnato come DPI, il difensore ricorrente sottolinea che non si è mai inteso sostenere che tale obbligo non sussista, ma che - nel contesto in esame - la corretta o scorretta esecuzione dell'obbligo dovesse essere valutata in concreto, analizzando il materiale probatorio raccolto in atti E: ricostruendo come l'imputato abbia inteso provvedervi. Ciò perché il S.M. era a capo di una struttura complessa e che quindi nello svolgimento della propria attività non poteva che avvalersi dell'operato di collaboratori, quali il Responsabile di Area e il Responsabile di Unità, che avevano precisi compiti in materia di sicurezza sul lavoro e che erano perfettamente preparati per il loro svolgimento. In particolare, al Responsabile di Unità competeva la materiale esecuzione delle misure di prevenzione e protezione previste, mentre al Responsabile di Area competeva il controllo sull'effettiva esecuzione di tali misure, riferendo poi al dirigente sugli esiti di tale controllo. Ed allora la tesi che si sostiene in ricorso è che il generale obbligo di controllo che incombeva sul S.M. non poteva che essere eseguito attraverso l'operato dei preposti - cosa del tutto impossibile altrimenti per l'imputato -, nell'ambito di una classica delega (non di funzioni, ma) di esecuzione materiale per conto del soggetto subordinatamente apicale. Inoltre, per il ricorrente, ammesso pure che questo controllo sia stato quantomeno inefficace, di ciò il S.M. è stato del tutto inconsapevole, non essendogli mai stato segnalato che i lavoratori del centro di cottura disapplicassero le misure di prevenzione e protezione individuate. Quindi, pur avendo posto in essere una struttura quantitativamente e qualitativamente adeguata all'espletamento del proprio obbligo, l'imputato non ha mai avuto alcuna segnalazione che lo obbligasse ad interventi più incisivi in tema di rispetto delle prescrizioni di sicurezza.
Sotto questo specifico profilo, poi, l'affermazione del giudice di secondo grado secondo cui l'imputato fosse tenuto ad "un'attenta ed assidua vigilanza" si risolverebbe in una mera petizione di principio, del tutto sfornita di tenuta logica e giuridica.
In realtà, l'analisi del decisum -prosegue il ricorso- rende evidente come il giudice di secondo grado abbia riconosciuto la responsabilità dell'imputato facendola discendere automaticamente dalla sua posizione di garanzia nell'ambito della compagine sociale, sull'assunto che da questa dovessero necessariamente derivare poteri idonei per evitare l'infortunio verificatosi. Tale automatismo, non accompagnato da alcun accertamento in concreto circa le reali possibilità di gestione del rischio da parte dell'imputato, rischierebbe di condurre a una sorta di affermazione di responsabilità oggettiva del garante: tale circostanza, non può però ritenersi ammissibile.
Conseguentemente, deve ritenersi che il giudice di secondo grado abbia erroneamente applicato le leggi penali in materia di responsabilità colposa per violazione delle norme in materia di sicurezza sul lavoro ed abbia fornito una motivazione del tutto carente, non avendo proceduto alla valutazione di molteplici aspetti, pur prospettati dalla difesa nei motivi «appello, che avrebbero senza dubbio determinano l'esclusione di qualunque profilo di colpa in capo all'imputato.
Specificamente, se da un lato non è revocabile in dubbio che incombano sempre sul dirigente specifici oneri di vigilanza, dall'altro non potrebbe non considerarsi che il S.M. rivestisse una posizione apicale all'interno di una struttura societaria complessa e che, conseguentemente, non potesse adempiere agli incarichi conferitigli in prima persona. In questo contesto, l'addebito che in ipotesi avrebbe potuto essergli mosso sarebbe stato quello di aver posto in essere un'organizzazione inadeguata, per essersi avvalso di collaboratori senza precisi incarichi in materia di sicurezza sul lavoro, non dotati delle necessarie competenze e non adeguatamente formati. Ma di tutto ciò non vi è traccia nella sentenza impugnata.
Concludendo, se non è contestabile che l'imputato avesse posto in essere un'organizzazione adeguata alla gestione della sfera di rischio a lui attribuita, servendosi - sul piano esecutivo - di soggetti deputati ad eseguire concretamente misure e controllo sulla loro applicazione, e che non avesse avuto alcuna informazione circa una scorretta gestione della medesima sfera di rischio, ad egli non potrebbe ragionevolmente ascrivibile alcuna responsabilità per l'infortunio per cui è processo.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 40, co.2, 43, co. 3 e 590 co. 1, 2, 3 cod. pen. anche in relazione alle norme sulla prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro e, in particolare, in relazione all'art 77, co. 4 lett. d) D.lgs 81/08, nonché mancanza, illogicità manifesta e mancanza di motivazione.
Per il difensore ricorrente sembrerebbe che il giudice d'appello abbia escluso la sussistenza del profilo di colpa specifica addebitato al S.M., consistente nella mancata o comunque scorretta fornitura dei DPI, ai sensi dell'art. 77, co. 4, lettera d) del D.lgs 81/08,.
Ci si duole, però, che la statuizione della sentenza impugnata, sul punto, non sembri essere del tutto univoca. In proposito, infatti il giudice di secondo grado afferma, da un lato, la correttezza dell'assunto difensivo secondo il quale l'art. 77 co. 4 lett. d) D.lgs 81/08, prevede in effetti che "qualora le circostanze richiedano l'uso di uno stesso DPI da parte di più persone" i DPI possano essere messi a disposizione in modo collettivo, ma dall'altro afferma che "solo successivamente al verificarsi dell'infortunio, i guanti antitaglio furono forniti in modo individuale", quasi a ribadire l'impostazione accusatoria secondo la quale i DPI debbano essere posti a disposizione dei lavoratori esclusivamente in modo individuale .
Il ricorrente allora ripropone la censura già svolta contro la sentenza di primo grado sul possibile uso collettivo dei DPI, in casi come quello della lavoratrice in­ fortunata, che, così come tutti gli altri lavoratori impiegati nel centro di cottura, non era adibita quotidianamente ad operazioni che la esponessero a rischio di taglio, potendo operare per giorni senza alcun coinvolgimento in lavorazioni come quella in cui si è verificato l'infortunio; conseguentemente, i guanti anti-taglio erano stati posti a disposizione per il loro uso collettivo da parte di tutti i lavoratori, senza un'assegnazione individuale del DPI. D'altro canto, prosegue il ricorso, i guanti erano presenti in numero, qualità e taglie adeguate alla bisogna. La lavoratrice infortunata, poi, era stata ovviamente posta a conoscenza della disponibilità dei guanti anti-taglio, era stata informata del rischio ed era stata formata anche sull'uso dei DPI.
Il giudice di prime cure aveva accolto l'impostazione accusatoria, motivando nel senso che "il tecnico accertava, tra l'altro, la violazione dell'art. 77 co. 4, lettera d) del D.lgs 81/08, che stabilisce gli obblighi del datore di lavoro rispetto alle attrezzature messe a disposizione dei lavoratori, che devono essere destinati ad un uso personale, consegnati personalmente e non collettivamente. Anche tale indicazione deve ritenersi norma precauzionale di pericolo, tale che induce il lavoratore ad una migliore conservazione del presidio personale, ponendone inoltre l'accento sulla necessità d'uso".
Evidenzia allora il ricorrente che, in primo luogo, il chiaro disposto dell'art. 74 del D.lgs 81/08, rende esplicito che il significato di "dispositivo di protezione individuale", o DPI, che è quello di strumento che protegge un" lavoratore, contrapposto ai dispositivi di protezione collettiva che appunto proteggono "più di un" lavoratore, ma non significa affatto che si tratti di strumento che protegge "quel" lavoratore. Quindi, un utilizzo collettivo del DPI, qualora le condizioni lo consentano, non può affatto essere concettualmente escluso. Ma c'è di più. Proprio l'art. 77, co. 4, lettera d) del D.lgs 81/08, consente esplicitamente un uso collettivo del DPI, stabilendo che "qualora le circostanze richiedano l'uso di uno stesso DPI da parte di più persone, [il datore di lavoro] prende misure adeguate affinché tale uso non ponga alcun problema sanitario e igienico ai vari utilizzatori". Quindi l'unico limite legale all'utilizzo collettivo dei DPI è costituito dall'eventuale insorgere di problemi igienico-sanitari, ma in mancanza di questi è esplicitamente per­ messo. Di fronte a tali evidenze, la motivazione resa nella sentenza di primo grado - aveva già dedotto il ricorrente nel gravame del merito - era del tutto apparente: quella sentenza non diceva nulla sul perché la norma che consente l'uso collettivo dei DPI fosse stata disapplicata, ponendo poi l'accento su una presunta "migliore conservazione" del DPI o sulla altrettanto presunta "migliore consapevolezza" del lavoratore-tipo sul suo uso che si risolvevano in mere petizioni di principio.
La motivazione resa nella sentenza di secondo grado - ci si duole- sarebbe, invece, ambigua.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.

3. Nei termini di legge hanno rassegnato le proprie conclusioni scritte per l'udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 d.l. 137/2020), il P.G., che ha chiesto il rigetto del ricorso e il difensore dell'imputato Avv. Luca Basilio, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

1. I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.

2. Incontestate sono due importanti circostanze di fatto: a. che la lavoratrice (aiuto cuoco) ebbe a tagliarsi le mani, riportando le lesioni di cui all'imputazione, mentre era intenta ad aprire una grossa latta di tonno, in quanto eseguì tale operazione con dei normali guanti in lattice; b. che i guanti antitaglio erano stati messi a disposizione collettivamente e non singolarmente.
Il difensore ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione su punti specifici ampiamente considerati dalla decisione impugnata, sia in ordine al profilo di garanzia attribuibile al suo assistito,. sia in relazione alla mancata effettività del controllo sull'uso individuale dei DPI da parte dei lavoratori.
Tuttavia le doglianze oggi riproposte tout court erano state già confutate dal giudice del gravame del merito, con una motivazione con la quale il ricorrente in concreto non si confronta e che si palesa priva di aporie logiche e corretta in punto di diritto, sottraendosi, pertanto, alle proposte censure di legittimità.
Correttamente rileva la Corte territoriale che il S.M., nella qualità a lui attribuita di preposto e di titolare di una posizione di garanzia a tutela dell'incolu­mità dei lavoratori, era responsabile degli infortuni loro occorsi in violazione degli obblighi derivanti da detta posizione di garanzia in quanto titolare dei poteri necessari per impedire l'evento lesivo in concreto verificatosi (così ex multis la richiamata Sez. 4, n. 12251 del 19/06/2014, dep. 2015, De Vecchi e altro, Rv. 263004).
Egli, dunque, era nelle condizioni di gestire la sfera di rischio a lui conferita, intesa come area che designa l'ambito in cui si esplica l'obbligo di governare le situazioni pericolose che conforma l'obbligo del garante.
Ricorda la sentenza impugnata che il teste G. ha riferito in dibattimento che i guanti antitaglio erano presenti nel Centro Cottura di Sesto San Giovanni ma non forniti in modo individuale ai lavoratori bensì collettivo.
La sentenza impugnata avalla chiaramente l'interpretazione difensiva secondo cui l'art. 77 co. 4 lett. d) D.lgs 81/08 prevede in effetti che "qualora le circostanze richiedano l'uso di uno stesso DPI da parte di più persone" i DPI possano essere messi a disposizione in modo collettivo, il che rende il secondo motivo illustrato in premessa manifestamente infondato.

La circostanza, tuttavia, che ha portato concordemente i giudici del merito a ritenere provata la penale responsabilità dell'imputato è individuabile in ciò che ha dichiarato il medesimo teste G., ovvero che fosse del tutto "diffuso" l'utilizzo di guanti in lattice per l'effettuazione di operazioni con lame taglienti (come quella di apertura delle scatole di tonno).
Ed allora, quanto all'utilizzo effettivo dei DPI, secondo la logica motivazione del provvedimento impugnato, appare dirimente la deposizione del teste D. che ha specificato come il direttore regionale- e dunque S.M. - aveva l'obbligo di verificare che il responsabile di Unità attuasse le disposizioni affidate e riferisse al direttore regionale, e dunque all'odierno ricorrente.
Esisteva, dunque, una pericolosa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa che non era frutto di un'estemporanea scelta del singolo lavoratore, ma che era prassi operativa, che in quanto tale, non poteva rimanere nel governo del solo garante di prossimità, ma investiva anche quelli di grado più elevato, come l'odierno ricorrente.
Corretto appare il rilievo dei giudici di appello che la responsabilità del S.M. consegue alla specifica qualifica dallo stesso rivestita e che la circostanza, evocata in atto di appello e riproposta in questa sede, per cui l'imputato non sa­rebbe stato messo a conoscenza di problematiche attinenti il mancato utilizzo dei DPI, non appare dirimente proprio in considerazione del fatto che, come riferito dal teste G., la condotta pericolosa posta in essere dalla P.L. (l'apertura delle latte di tonno con utilizzo di soli guanti di lattice) lungi dall'essere attività estemporanea costituiva una prassi diffusa.
Dunque, seppure vada corretta l'affermazione che si legge in sentenza secondo cui "S.M. era quindi tenuto ad un'attenta ed assidua vigilanza, e di controllo che il lavoratore svolgesse la sua mansione senza mettere in pericolo la propria incolumità", lo stesso era tenuto a verificare che, indipendentemente dall'esistenza di un preposto al controllo delle lavorazioni, sul luogo di lavoro non fossero in atto prassi operative elusive dell'uso dei presidi antinfortunistici pur forniti.
Legittima o meno che fosse la messa a disposizione collettiva dei DPI, se n'era evidentemente dimostrata l'inadeguatezza, visto che, come ricorda la sentenza impugnata, successivamente al verificarsi dell'infortunio, i guanti antitaglio furono forniti in modo individuale.

3. B.O. , datore di lavoro e dunque in quanto tale, titolare della posi­ione di garanzia in tema di sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro, aveva delegato tale delicata funzione a S.M..

In particolare, egli, quale direttore regionale - come da delega di B.O.- e in particolare direttore di "Lombardia l", era a capo di un'unità complessa così strut­turata. S.M. era il dirigente del centro di cottura di Sesto San Gio­vanni, luogo del sinistro, e si avvaleva del Responsabile di Area che era l'anello di congiunzione con il responsabile di Unità, con il compito di attuare le disposizioni aziendali e di legge tutti con precisi compiti in materia di sicurezza sul lavoro .
Si è, dunque, in presenza, come rileva il ricorrente, di una struttura piramidale complessa con al vertice B.O., dal quale si dipartono le deleghe , via via, sempre più frazionate, piramide nella quale, S.M. occupava il primo gradino sotto il vertice di SODEXO ITALIA S.p.A.
Ebbene, con riferimento, alla specifica posizione del delegato alla sicurezza dei lavoratori, ovvero l'odierno ricorrente S.M., va rilevato che in tema di prevenzione di infortuni sui luoghi di lavoro, ai fini della individuazione del ga­rante nelle strutture aziendali complesse occorre fare riferimento al soggetto espressamente deputato alla gestione del rischio sicché deve ritenersi a lui ricon­ducibile, in quanto delegato dal datore di lavoro in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro , il controllo delle distribuzione e dell'uso effettivo dei disposi­tivi di protezione da parte dei lavoratori, al fine di rilevare difetti pericolosi per la sicurezza e la salute dei lavoratori e per eliminarli
Orbene, il ricorrente e la sentenza impugnata dedicano peculiare attenzione alla dedotta insufficienza del DVR e alla consegna collettiva e non individuale dei dispositivi di protezione individuali, laddove, come detto, il nodo centrale della vicenda appare l'effettivo controllo sull'utilizzo secondo regola dei dispositivi di protezione individuale da parte dei lavoratori.
Correttamente, tuttavia, la Corte territoriale, anche in ragione della più evoluta valutazione dei compiti di garanzia del datore di lavoro , osserva che le rilevate omissioni del DVR e della fornitura del presidio individuale di tutela nonché il successivo controllo sul suo utilizzo, escludono la possibilità di invocare , quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte dei lavoratori poiché il rispetto della normativa antinfortunistica ha la finalità di salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi delle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze, purché naturalmente connesse con lo svolgimento delle attività lavorative.

4. La sentenza impugnata, dunque, opera un buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, o il suo delegato, hanno l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). Va anche ricordato che l'eventuale colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedi­ bile scelta del lavoratore (vedasi per tutte questa Sez. 4, n. 16397 del 5/3/2015, Guida, che ha escluso l'abnormità della condotta del lavoratore, il quale, impegnato nell'installazione di un ascensore, era caduto mettendo il piede in fallo, così battendo la testa e decedendo, dopo essersi sganciato dall'imbracatura di sicurezza per meglio eseguire i lavori di sua competenza, atteso che le modalità esecutive da lui adottate rientravano nel novero delle violazioni comportamentali che i lavoratori perpetrano quanto ritengono di aver acquisito competenza ed abilità nelle proprie mansioni)
In altri termini, l'esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l'evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento. (Sez. 4, n. 23292 del 28/4/2011, Millo ed altri, Rv. 250710 che ha precisato essere abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, e che tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli).

5. Secondo la logica motivazione del giudice del gravame del merito -con cui, in concreto, sul punto, l'odierno ricorso non si confronta- risulta evidente, dunque, alla luce di quanto dichiarato dai testi G. e D. che il DVR non prevedeva una griglia di controlli -sistematici o a campione ma sistemici - sul rispetto delle regole cautelari previste, né un sistema di controllo sull'onere di informazione dei responsabili di unità e di area verso il direttore regionale in punto di utilizzo effettivo dei dispositivi di protezione individuale né l'elaborazione del DVR prevedeva un sistema, a cascata, di controlli sull'effettivo rispetto delle procedure di sicurezza elaborate e per prevenire infortuni. Se così è, risulta evidente che il DVR era effettivamente inadeguato, anche solo con riferimento ai protocolli operativi nell'utilizzo di macchinari e dispositivi finalizzati al taglio.
Allo stesso tempo, non risultano controlli effettivi da parte del responsabile di unità sull'effettivo e costante utilizzo dei DPI da parte dei singoli lavoratori; nulla sembra riferito dal responsabile di unità delegato al direttore regionale, non risultano protocolli di controllo, nemmeno a campione richiesti dal direttore generale né verifiche effettive da parte dell'imputato ricorrente sui controlli del responsabile di unità e di area
La conclusione è che i responsabili di Area e di Unità non controllavano, S.M. non esigeva report né aggiornamenti sicché l'utilizzo dei guanti di lattice, in dispregio dei dispositivi di protezione individuale era, con riferimento alla vicenda per cui vi è processo, una prassi diffusa, in totale violazione degli oneri di reciproca informazione cui erano tenuti i soggetti destinatari di deleghe in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro.
La Corte territoriale richiama correttamente il consolidato principio in forza del quale, in tema di reati omissivi colposi, se più sono i titolari della posizione di garanzia (nella specie, relativamente al rispetto della normativa antinfortunistica sui luoghi di lavoro), ciascuno è, per intero, destinatario dell'obbligo giuridico di impedire l'evento, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è, però, doveroso per l'altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente intervenuto (cfr. ex multis Sez. 4, n. 45369/2010, Osella - conf. nn. 47931/1990, 38810/2005 Rv. 232415).
Consegue che, ove più persone rivestano una posizione di garanzia (nel caso in esame il direttore regionale e, a cascata, i responsabili di area e di unità), ciascuno è, per intero, destinatario dell'obbligo giuridico di evitare l'evento.

6. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.

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