Esalazioni di acido solfidrico all'interno della cisterna di raccolta acqua piovana
Morte di due lavoratori - Carenze organizzative e mancanza di formazione
Penale Sent. Sez. 4 Num. 56952 Anno 2018
Presidente: MONTAGNI ANDREA
Relatore: RANALDI ALESSANDRO
Data Udienza: 23/10/2018
Fatto
1. Con sentenza del 10.10.2017 la Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza emessa dal GUP di Bari in sede di giudizio abbreviato, per quanto qui interessa, ha assolto M.R. dal reato di omicidio colposo in danno dei lavoratori G.P. e B.A., per non aver commesso il fatto; ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di D.T. in ordine alle contravvenzioni a lui contestate perché estinte per prescrizione, rideterminando la pena nei suoi confronti in mesi 10 e giorni 20 di reclusione; per il resto, ha confermato la declaratoria di penale responsabilità del D.T. in ordine al predetto reato di omicidio colposo.
1.1. I due lavoratori deceduti erano dipendenti del D.T., titolare dell'omonima ditta che nell'occorso agiva quale subappaltatrice della S.p.a. Italiana Costruzioni, che aveva in appalto lavori per conto della committente S.p.a. Casa Olearia Italiana per la manutenzione, fra le altre cose, di cisterne e vasche per la raccolta di acque meteoriche. Nell'ambito di tale rapporto, che durava da diversi anni, i due lavoratori avevano ricevuto disposizioni da O.D., cognato dell'amministratore unico della ditta Casa Olearia Italiana S.p.a., L.M., di eseguire lavori per rendere nuovamente fungibile una cisterna per la raccolta delle acque piovane sita presso la sede della ditta stessa. Qualche giorno dopo, il 18.8.2006, il G.P. e l'B.A. si recavano, di propria iniziativa, presso tale ditta per portare a compimento l'operazione richiesta, senza che nessuno li vedesse o ne fosse a conoscenza; si addentravano nella cisterna e, a causa delle esalazioni di acido solfidrico, perdevano la vita per anossia cerebrale.
1.2. La Corte di appello, riconosciuta l'assoluta imprudenza nell'occorso delle due vittime, non avendo costoro adottato le opportune cautele, munendosi di adeguati dispositivi di protezione (imbracatura, mascherine e bombole d'ossigeno), pur rinvenute nel luogo del sinistro, ha escluso che tale comportamento dei due dipendenti assumesse valore di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento, trattandosi di operazione rientrante a pieno titolo nelle loro mansioni, e quindi non anomala né esorbitante o imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere.
1.3. Pertanto, conformemente con quanto stabilito dal primo giudice, ha ritenuto il D.T. responsabile dell'evento mortale, poiché costui, in qualità di datore di lavoro, «aveva l'obbligo di vigilare sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza e sulla conformità della condotta dei dipendenti alle regole di cautela»’, ha aggiunto che la mancata conoscenza, da parte del D.T., di tale intervento non ne escludeva la responsabilità, in quanto ciò era indicativo di una notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, in buona parte affidata al G.P., che normalmente comunicava con i L.M. per conto del D.T..
1.4. La Corte di merito ha invece ribaltato in assoluzione il giudizio di condanna del primo giudice nei confronti di M.R., designato quale RSPP dalla Casa Olearia S.p.a. Al riguardo ha ritenuto che al prevenuto non fosse addebitabile alcuna violazione degli obblighi su di lui incombenti di analisi dei rischi delle attività aziendali e di compiuta informativa dei medesimi nei confronti del datore di lavoro e dei lavoratori, con particolare riguardo ai rischi connessi ai lavori svolti in vasche e cisterne.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Bari, la parte civile M.A. e altri nonché l'imputato D.T..
3. Il ricorso del Procuratore generale impugna la pronuncia assolutoria nei confronti di M.R., lamentando vizio di motivazione.
Deduce che la Corte di appello ha assolto il M.R. inopinatamente e senza motivazioni idonee a giustificare la riforma della sentenza di condanna di primo grado, senza delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e omettendo di confutare in modo specifico e compiuto i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza. Nel caso di specie, invece, il giudice di appello si sarebbe limitato ad una affermazione "fideistica" sull'avere il M.R. posto in essere quanto a lui richiesto in tema di prevenzione e protezione.
4. Il ricorso della parte civile M.A. e altri, condividendo le censure del Procuratore generale, lamenta il vizio di motivazione della sentenza impugnata, ritenendo che la stessa non consenta di individuare i passaggi logico-giuridici attraverso i quali la Corte di merito abbia ritenuto accertati i presupposti di fatto sui quali si basa l'assoluzione dell'imputato M.R., quando le emergenze probatorie conducono gli esiti del giudizio in senso diametralmente opposto.
Assume che non corrisponde al vero che il M.R. abbia predisposto un articolato piano di prevenzione rispetto agli operai della ditta D.T. che operavano in regime di appalto nella stabilimento della ditta appaltante. I due lavoratori deceduti erano operai edili non specializzati privi di apposite conoscenze e qualifiche. Denuncia la colposa disorganizzazione del M.R. che non aveva predisposto un adeguato servizio di vigilanza ed informazione presso la ditta nel periodo feriale. Nessuno si era preso cura di attenzionare gli operai dei rischi insiti nel calarsi nel tombino.
Lamenta, inoltre, che la natura simmetrica del processo penale impone al giudice di secondo grado che desideri procedere al ribaltamento della decisione assunta dal giudice di primo grado, sulla base di una opposta valutazione delle prove dichiarative, di procedere alla rinnovazione di tali prove, rinnovazione che nel caso in disamina non risulta effettuata.
5. Il ricorso dell'imputato D.T. lamenta quanto segue.
5.1. Con il primo motivo, denuncia vizio di motivazione in relazione alla mancata quantificazione/valutazione del concorso di colpa delle vittime nel verificarsi dell'incidente sul lavoro, pur incontrovertibilmente riconosciuto in sentenza, anche a fini di mera quantificazione della pena ai sensi dell'art. 114 cod. pen.
5.2. Con il secondo motivo, denuncia contraddittorietà della motivazione nella valutazione della responsabilità del ricorrente rispetto a quella del coimputato M.R..
Osserva che la sentenza ha stabilito che al M.R., quale RSPP della ditta Casa Olearia, non è addebitabile la mancata analisi del rischio connesso alla lavorazione e la carente informativa dei lavoratori stessi rispetto al medesimo. Pertanto nel caso di specie era stata effettuata adeguata analisi del rischio connesso alla manutenzione delle vasche ed erogata adeguata informativa ai lavoratori stessi del rischio in questione. La Corte territoriale ha parimenti accertato che il D.T. non era stato avvertito né del lavoro da eseguire, né della decisione dei due operai di portarsi sul cantiere per eseguire il lavoro, visto che quel giorno era prevista una diversa attività (scarico di una nave nel porto di Monopoli), poi annullata. Anche per il D.T. il cantiere di Casa Olearia era chiuso per ferie. Pertanto l'affermazione di penale responsabilità del D.T. risulta in contraddizione logica con l'affermazione secondo cui il M.R. aveva approntato idonea "procedura operativa per la pulizia di serbatoi e vasche fuori terra e interrate".
Deduce la illogicità dell'affermazione di responsabilità del D.T. per colpa in materia di sicurezza sul lavoro con riferimento ad un compito dallo stesso non organizzato, non demandato a chicchessia e di cui non era addirittura a conoscenza.
Contesta, inoltre, l'argomentazione della Corte barese secondo cui la responsabilità del ricorrente si fonderebbe anche sulla «notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, la quale era affidata in buona parte al G.P.» il quale «addirittura, si occupava della formazione dei lavoratori della ditta in ordine ai rischi lavorativi». In proposito osserva che la legge impone soltanto un obbligo di erogazione della formazione utile alla sicurezza dei propri dipendenti, mentre non regolamenta le specifiche modalità di somministrazione di tale attività formativa.
5.3. Con il terzo motivo, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 589 cod. pen. e all'art. 28 d.lgs. n. 81/2008.
Deduce che la Corte di appello, per giustificare il suo immotivato approdo colpevolista, muove sull'aspetto dell'obbligo di informazione nei confronti dei lavoratori in una critica tanto generica, quanto imperscrutabile alle modalità di somministrazione di tale obbligo, di cui però (contraddittoriamente ed illogicamente) dà in concreto atto del relativo adempimento da parte del datore di lavoro. In punto di diritto osserva, però, che il legislatore ha preferito non codificare le forme di somministrazione delle informazioni obbligatorie da parte del datore di lavoro ai suoi dipendenti: l'importante, secondo l'art. 36 d.lgs. n. 81/2008, è che il contenuto dell'informazione sia "facilmente comprensibile per i lavoratori" e raggiunga lo scopo di "consentire loro di acquisire le relative conoscenze". La sentenza impugnata non ha accertato l'inadeguatezza della formazione dei lavoratori deceduti; al contrario, mandando assolto il M.R., ha statuito esattamente l'opposto. Del resto, solo il lavoratore che conosce i pericoli cui è esposto, può correttamente prendersi cura di sé medesimo e dei compagni, come previsto dall'art. 20 del Testo Unico. Né può richiedersi al datore di lavoro un obbligo di controllo "fino alla pedanteria" di quello che fa il lavoratore, soprattutto se, come nel caso, il ricorrente non era stato nemmeno informato della lavorazione. L'obbligo di informazione, formazione ed addestramento va evaso proprio perché del lavoratore bisognerà, poi, potersi fidare. Quanto più il lavoratore sarà messo in grado di gestire autonomamente il rischio, tanto più il datore di lavoro vedrà limitata la propria responsabilità. Nel caso in disamina, il rischio affrontato era ben noto ai lavoratori, i quali erano consapevoli delle misure di sicurezza da adottare attraverso strumenti idonei messi a disposizione dei lavoratori (ma colpevolmente non utilizzati dagli stessi).
Il vizio di fondo della sentenza impugnata, sulla scorta di quanto precede, è quello di non avere valorizzato la condotta imprudente degli operai deceduti quale causa sopravvenuta sufficiente di per sé sola a determinare il tragico evento, avendo la stessa innescato un rischio nuovo ed incommensurabile.
Ritiene, in ogni caso, che non possa individuarsi alcuna colpa nella condotta del datore di lavoro, il quale non ha commesso alcuna azione o omissione violativa di regole cautelari, eziologicamente ricollegabile all'evento mortale.
5.4. Con il quarto motivo, denuncia la carenza di motivazione in ordine all'accertamento del nesso causale tra omissione ed evento, con particolare riguardo al giudizio di prevedibilità in concreto dell'incidente mortale da parte del datore di lavoro.
6. Sono state depositate note difensive da parte del difensore di M.R., con le quali, nel ritenere accertata, sulla base della ricostruzione dei fatti, l'interruzione del nesso di causalità fra le condotte contestate e l'evento, riscontra l'aspecificità e manifesta infondatezza dei ricorsi proposti dal Procuratore generale territoriale e dalle parti civili, di cui invoca l'inammissibilità.
1.1. I due lavoratori deceduti erano dipendenti del D.T., titolare dell'omonima ditta che nell'occorso agiva quale subappaltatrice della S.p.a. Italiana Costruzioni, che aveva in appalto lavori per conto della committente S.p.a. Casa Olearia Italiana per la manutenzione, fra le altre cose, di cisterne e vasche per la raccolta di acque meteoriche. Nell'ambito di tale rapporto, che durava da diversi anni, i due lavoratori avevano ricevuto disposizioni da O.D., cognato dell'amministratore unico della ditta Casa Olearia Italiana S.p.a., L.M., di eseguire lavori per rendere nuovamente fungibile una cisterna per la raccolta delle acque piovane sita presso la sede della ditta stessa. Qualche giorno dopo, il 18.8.2006, il G.P. e l'B.A. si recavano, di propria iniziativa, presso tale ditta per portare a compimento l'operazione richiesta, senza che nessuno li vedesse o ne fosse a conoscenza; si addentravano nella cisterna e, a causa delle esalazioni di acido solfidrico, perdevano la vita per anossia cerebrale.
1.2. La Corte di appello, riconosciuta l'assoluta imprudenza nell'occorso delle due vittime, non avendo costoro adottato le opportune cautele, munendosi di adeguati dispositivi di protezione (imbracatura, mascherine e bombole d'ossigeno), pur rinvenute nel luogo del sinistro, ha escluso che tale comportamento dei due dipendenti assumesse valore di causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento, trattandosi di operazione rientrante a pieno titolo nelle loro mansioni, e quindi non anomala né esorbitante o imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere.
1.3. Pertanto, conformemente con quanto stabilito dal primo giudice, ha ritenuto il D.T. responsabile dell'evento mortale, poiché costui, in qualità di datore di lavoro, «aveva l'obbligo di vigilare sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza e sulla conformità della condotta dei dipendenti alle regole di cautela»’, ha aggiunto che la mancata conoscenza, da parte del D.T., di tale intervento non ne escludeva la responsabilità, in quanto ciò era indicativo di una notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, in buona parte affidata al G.P., che normalmente comunicava con i L.M. per conto del D.T..
1.4. La Corte di merito ha invece ribaltato in assoluzione il giudizio di condanna del primo giudice nei confronti di M.R., designato quale RSPP dalla Casa Olearia S.p.a. Al riguardo ha ritenuto che al prevenuto non fosse addebitabile alcuna violazione degli obblighi su di lui incombenti di analisi dei rischi delle attività aziendali e di compiuta informativa dei medesimi nei confronti del datore di lavoro e dei lavoratori, con particolare riguardo ai rischi connessi ai lavori svolti in vasche e cisterne.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Bari, la parte civile M.A. e altri nonché l'imputato D.T..
3. Il ricorso del Procuratore generale impugna la pronuncia assolutoria nei confronti di M.R., lamentando vizio di motivazione.
Deduce che la Corte di appello ha assolto il M.R. inopinatamente e senza motivazioni idonee a giustificare la riforma della sentenza di condanna di primo grado, senza delineare le linee portanti del proprio alternativo ragionamento probatorio e omettendo di confutare in modo specifico e compiuto i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza. Nel caso di specie, invece, il giudice di appello si sarebbe limitato ad una affermazione "fideistica" sull'avere il M.R. posto in essere quanto a lui richiesto in tema di prevenzione e protezione.
4. Il ricorso della parte civile M.A. e altri, condividendo le censure del Procuratore generale, lamenta il vizio di motivazione della sentenza impugnata, ritenendo che la stessa non consenta di individuare i passaggi logico-giuridici attraverso i quali la Corte di merito abbia ritenuto accertati i presupposti di fatto sui quali si basa l'assoluzione dell'imputato M.R., quando le emergenze probatorie conducono gli esiti del giudizio in senso diametralmente opposto.
Assume che non corrisponde al vero che il M.R. abbia predisposto un articolato piano di prevenzione rispetto agli operai della ditta D.T. che operavano in regime di appalto nella stabilimento della ditta appaltante. I due lavoratori deceduti erano operai edili non specializzati privi di apposite conoscenze e qualifiche. Denuncia la colposa disorganizzazione del M.R. che non aveva predisposto un adeguato servizio di vigilanza ed informazione presso la ditta nel periodo feriale. Nessuno si era preso cura di attenzionare gli operai dei rischi insiti nel calarsi nel tombino.
Lamenta, inoltre, che la natura simmetrica del processo penale impone al giudice di secondo grado che desideri procedere al ribaltamento della decisione assunta dal giudice di primo grado, sulla base di una opposta valutazione delle prove dichiarative, di procedere alla rinnovazione di tali prove, rinnovazione che nel caso in disamina non risulta effettuata.
5. Il ricorso dell'imputato D.T. lamenta quanto segue.
5.1. Con il primo motivo, denuncia vizio di motivazione in relazione alla mancata quantificazione/valutazione del concorso di colpa delle vittime nel verificarsi dell'incidente sul lavoro, pur incontrovertibilmente riconosciuto in sentenza, anche a fini di mera quantificazione della pena ai sensi dell'art. 114 cod. pen.
5.2. Con il secondo motivo, denuncia contraddittorietà della motivazione nella valutazione della responsabilità del ricorrente rispetto a quella del coimputato M.R..
Osserva che la sentenza ha stabilito che al M.R., quale RSPP della ditta Casa Olearia, non è addebitabile la mancata analisi del rischio connesso alla lavorazione e la carente informativa dei lavoratori stessi rispetto al medesimo. Pertanto nel caso di specie era stata effettuata adeguata analisi del rischio connesso alla manutenzione delle vasche ed erogata adeguata informativa ai lavoratori stessi del rischio in questione. La Corte territoriale ha parimenti accertato che il D.T. non era stato avvertito né del lavoro da eseguire, né della decisione dei due operai di portarsi sul cantiere per eseguire il lavoro, visto che quel giorno era prevista una diversa attività (scarico di una nave nel porto di Monopoli), poi annullata. Anche per il D.T. il cantiere di Casa Olearia era chiuso per ferie. Pertanto l'affermazione di penale responsabilità del D.T. risulta in contraddizione logica con l'affermazione secondo cui il M.R. aveva approntato idonea "procedura operativa per la pulizia di serbatoi e vasche fuori terra e interrate".
Deduce la illogicità dell'affermazione di responsabilità del D.T. per colpa in materia di sicurezza sul lavoro con riferimento ad un compito dallo stesso non organizzato, non demandato a chicchessia e di cui non era addirittura a conoscenza.
Contesta, inoltre, l'argomentazione della Corte barese secondo cui la responsabilità del ricorrente si fonderebbe anche sulla «notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, la quale era affidata in buona parte al G.P.» il quale «addirittura, si occupava della formazione dei lavoratori della ditta in ordine ai rischi lavorativi». In proposito osserva che la legge impone soltanto un obbligo di erogazione della formazione utile alla sicurezza dei propri dipendenti, mentre non regolamenta le specifiche modalità di somministrazione di tale attività formativa.
5.3. Con il terzo motivo, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 589 cod. pen. e all'art. 28 d.lgs. n. 81/2008.
Deduce che la Corte di appello, per giustificare il suo immotivato approdo colpevolista, muove sull'aspetto dell'obbligo di informazione nei confronti dei lavoratori in una critica tanto generica, quanto imperscrutabile alle modalità di somministrazione di tale obbligo, di cui però (contraddittoriamente ed illogicamente) dà in concreto atto del relativo adempimento da parte del datore di lavoro. In punto di diritto osserva, però, che il legislatore ha preferito non codificare le forme di somministrazione delle informazioni obbligatorie da parte del datore di lavoro ai suoi dipendenti: l'importante, secondo l'art. 36 d.lgs. n. 81/2008, è che il contenuto dell'informazione sia "facilmente comprensibile per i lavoratori" e raggiunga lo scopo di "consentire loro di acquisire le relative conoscenze". La sentenza impugnata non ha accertato l'inadeguatezza della formazione dei lavoratori deceduti; al contrario, mandando assolto il M.R., ha statuito esattamente l'opposto. Del resto, solo il lavoratore che conosce i pericoli cui è esposto, può correttamente prendersi cura di sé medesimo e dei compagni, come previsto dall'art. 20 del Testo Unico. Né può richiedersi al datore di lavoro un obbligo di controllo "fino alla pedanteria" di quello che fa il lavoratore, soprattutto se, come nel caso, il ricorrente non era stato nemmeno informato della lavorazione. L'obbligo di informazione, formazione ed addestramento va evaso proprio perché del lavoratore bisognerà, poi, potersi fidare. Quanto più il lavoratore sarà messo in grado di gestire autonomamente il rischio, tanto più il datore di lavoro vedrà limitata la propria responsabilità. Nel caso in disamina, il rischio affrontato era ben noto ai lavoratori, i quali erano consapevoli delle misure di sicurezza da adottare attraverso strumenti idonei messi a disposizione dei lavoratori (ma colpevolmente non utilizzati dagli stessi).
Il vizio di fondo della sentenza impugnata, sulla scorta di quanto precede, è quello di non avere valorizzato la condotta imprudente degli operai deceduti quale causa sopravvenuta sufficiente di per sé sola a determinare il tragico evento, avendo la stessa innescato un rischio nuovo ed incommensurabile.
Ritiene, in ogni caso, che non possa individuarsi alcuna colpa nella condotta del datore di lavoro, il quale non ha commesso alcuna azione o omissione violativa di regole cautelari, eziologicamente ricollegabile all'evento mortale.
5.4. Con il quarto motivo, denuncia la carenza di motivazione in ordine all'accertamento del nesso causale tra omissione ed evento, con particolare riguardo al giudizio di prevedibilità in concreto dell'incidente mortale da parte del datore di lavoro.
6. Sono state depositate note difensive da parte del difensore di M.R., con le quali, nel ritenere accertata, sulla base della ricostruzione dei fatti, l'interruzione del nesso di causalità fra le condotte contestate e l'evento, riscontra l'aspecificità e manifesta infondatezza dei ricorsi proposti dal Procuratore generale territoriale e dalle parti civili, di cui invoca l'inammissibilità.
Diritto
1. I ricorsi del Procuratore generale e della parti civili sono infondati e vanno, quindi, rigettati.
1.1. Si tratta di ricorsi i cui motivi sono ai limiti della inammissibilità, in quanto prospettano, in prevalenza, generiche censure di merito, essendo accomunati dal fatto che essi contestano a vario titolo la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte territoriale in relazione alla posizione di responsabilità del M.R. con riferimento all'incidente mortale in disamina.
Giova qui ribadire che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità «deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali» (in tal senso, ex plurimis, Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite, le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv. 207945). La Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica deM'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasta preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, n. 17905 del 23/03/2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 1, n. 1769 del 23/03/1995, Rv. 201177; Sez. 6, n. 22445 in data 8.05.2009, Rv. 244181).
1.2. Nel caso in disamina, con specifico riferimento alla posizione del M.R., la Corte territoriale ha congruamente e logicamente motivato in ordine alla esclusione di responsabilità del medesimo, accertando che costui aveva stilato idonea documentazione nella quale si dava atto dei rischi connessi ai lavori svolti in vasche e cisterne, ed inoltre aveva messo a disposizione dei dipendenti i necessari dispositivi di protezione utili allo svolgimento delle predette mansioni, garantendo la salubrità dei luoghi di lavoro.
In tal modo, il giudice di appello ha riscontrato l'assenza di specifiche omissioni colpose addebitabili al M.R., in linea con l'insegnamento di questa Corte secondo cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, solo degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l'adozione di misure prevenzionali doverose (Sez. 4, n. 2814 del 21/12/2010 - dep. 27/01/2011, Di Mascio, Rv. 24962601). Nulla di tutto questo è stato riscontrato dalla Corte territoriale, e le opposte considerazioni dei ricorrenti, secondo cui le emergenze probatorie condurrebbero gli esiti del giudizio in senso diametralmente opposto, pretendono di ottenere dalla Corte di cassazione una rivalutazione dei dati probatori finalizzata ad una diversa ed alternativa ricostruzione dei fatti che non è consentita in sede di legittimità, a fronte di una motivazione che non può dirsi affetta da incoerenza o da manifesta illogicità.
1.3. Per il resto, le doglianze dei ricorrenti in ordine a presunti vizi motivazionali da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata sono generiche ed inconsistenti, posto che neanche vengono indicati quali sarebbero i punti decisivi o rilevanti che non sarebbero stati compiutamente affrontati dal giudice di appello rispetto alle argomentazioni della sentenza di primo grado, al di là dell'asserita gestione "familiare" della ditta presso cui il M.R. prestava servizio, dato che di per sé solo appare neutro rispetto al più ampio tema della sussistenza di specifiche omissioni addebitabili al M.R..
1.4. Non sono poi fondate le censure articolate dalle parti civili in merito all'obbligo da parte del giudice di appello, prima di decidere in senso assolutorio, di procedere alla rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative.
Al riguardo è stato ormai definitivamente affermato il principio secondo cui il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 27243001). L'autorevole consesso ha chiarito che il principio della presunzione di non colpevolezza svolge un fondamentale ruolo di riequilibrio dell'ordine processuale, poiché, mentre il pubblico ministero è tenuto a provare i fatti costitutivi di un reato "al di là di ogni ragionevole dubbio", per l'imputato è sufficiente insinuare il dubbio circa l'esistenza di elementi negativi a discarico o impeditivi ai fini dell'accertamento della sua responsabilità. Ne discende che il sistema del processo penale - contrariamente a quanto affermato in ricorso - non presenta affatto un'architettura simmetrica, rilevando in tale prospettiva le implicazioni sottese alle regole di applicazione del principio posto dall'art. 27, secondo comma, Cost., con il corrispondente quadro normativo ordinario delineato negli artt. 530, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen. L'asimmetricità del sistema è conseguenza proprio delle regole di giudizio di cui ai predetti articoli, che impongono la condanna solo se la colpevolezza dell'imputato è provata «al di là di ogni ragionevole dubbio», mentre l'assoluzione può (e deve) essere pronunciata «anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». La necessità di rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative decisive - anche in caso di giudizio abbreviato - serve a vincere il ragionevole dubbio; dubbio rappresentato, appunto, da una precedente sentenza di assoluzione. L'assoluzione dopo una condanna, invece, non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l'assoluzione (giusta la regola di cui all'art. 530, comma 2, cod. proc. pen.).
2. Anche il ricorso del D.T. è infondato e meritevole di rigetto.
2.1. Quanto al primo motivo, è appena il caso di rilevare che la questione del concorso di colpa della vittima non è stata specificamente dedotta nell'atto di appello, pertanto la stessa non può essere esaminata in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 27120 del 05/03/2015, Ottonello e altro).
2.2. Quanto al secondo motivo, si osserva che non è dato riscontrare alcuna contraddittorietà nel percorso argomentativo della sentenza impugnata in ordine alla valutazione della responsabilità del ricorrente rispetto a quella del M.R..
In primo luogo, non possono ritenersi equivalenti le posizioni di responsabilità del D.T. e del M.R. rispetto all'Infortunio mortale in esame, che ha riguardato due dipendenti del D.T., mentre il M.R. era responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) di una ditta diversa rispetto a quella del D.T..
E' infatti evidente che laddove la Corte di appello addebita al D.T. profili colposi che attengono, essenzialmente, alla riscontrata disorganizzazione aziendale della ditta in cui operavano i lavoratori deceduti, viene in rilievo la specifica posizione del D.T. quale datore di lavoro, in alcun modo equiparabile, sotto il profilo degli obblighi riconducibili a tale posizione di garanzia, con quella del M.R. quale RSPP di una ditta diversa.
Sotto un diverso, ma connesso, profilo, il riscontrato deficit di formazione dei lavoratori deceduti, cui si accenna anche nella sentenza di primo grado, non può che essere imputato al datore di lavoro - e non certo allo RSPP di un'altra azienda - avuto riguardo al ruolo centrale di tale figura nel sistema prevenzionistico, quale primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 cod. civ., in quanto garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21 ottobre 2014, Ottino, Rv. 26320001); e fra i numerosi obblighi a suo carico in tale ambito, è sempre sul datore di lavoro che grava il fondamentale obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio 2015, Vallani, Rv. 26517801; Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 25921901).
La circostanza che il D.T. non fosse stato avvertito del lavoro da eseguire da parte dei suoi due dipendenti, è stata adeguatamente considerata nella sentenza impugnata, che in maniera congrua e razionale, oltre che corretta in diritto, ne ha inferito che ciò non esonerava il D.T. dagli obblighi a lui attribuiti ex lege, denotando anzi proprio tale circostanza una notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, nonostante i doveri incombenti sul datore di lavoro di organizzare in maniera tecnicamente adeguata l'attività lavorativa dei dipendenti in maniera tale da assicurarne la sicurezza, anche in presenza di comportamenti colposi degli stessi; cui sono ricollegabili gli ulteriori doveri, sempre incombenti sul datore di lavoro, di prevenzione informativa e formativa del personale nonché di necessaria vigilanza e controllo sull'operato dei propri subordinati.
Il datore di lavoro non può invocare a propria scusa il principio di affidamento, assumendo che l’attività del lavoratore era imprevedibile, essendo ciò doppiamente erroneo, da un lato in quanto l'operatività del detto principio riguarda i fatti prevedibili e dall'altro atteso che esso comunque non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia, come certamente è quella del datore di lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A, Rv. 21499701).
L'addebito che viene mosso al D.T., sulla base di una valutazione del compendio probatorio e di un iter motivazionale che non è sindacabile in questa sede in quanto non affetto da incongruenza o manifesta illogicità, è essenzialmente quello di avere approntato un sistema di sicurezza aziendale che presentava delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 22813 del 21/04/2015, Palazzolo).
Del resto, proprio dalle accertate modalità con le quali si è verificato l'infortunio mortale in disamina, sono state desunte le carenze organizzative ed il deficit di formazione dei lavoratori, imputabili al datore di lavoro D.T., tenuto conto della riscontrata imprudenza con la quale il G.P. e l'B.A. hanno posto in essere l'attività rivelatasi fatale, calandosi nella cisterna senza munirsi degli adeguati dispositivi di protezione (imbracatura, mascherine e bombole d'ossigeno). In tale ottica va letta l'affermazione della Corte di appello in ordine al deficit organizzativo e di formazione addebitabile al D.T., essendo stato accertato che tali aspetti - fondamentali in materia di sicurezza - erano stati informalmente delegati proprio al G.P., rivelando così la palese ed indebita sottrazione del D.T. agli obblighi prevenzionistici su di lui specificamente incombenti ai sensi di legge.
In definitiva, la sentenza impugnata ha esaurientemente argomentato in ordine alle omissioni colpose imputabili al D.T., cui viene, fondamentalmente, rimproverato di avere indebitamente "lasciato a loro stessi" il G.P. e l'B.A. nello svolgimento di una attività lavorativa pericolosa, disinteressandosi dei profili di organizzazione aziendale e di necessaria formazione dei dipendenti sotto il profilo della sicurezza prevenzionistica.
2.3. Il terzo motivo è parimenti infondato, per le stesse ragioni che sono già state dianzi rappresentate.
L'inadeguatezza della formazione dei lavoratori da parte del D.T. è stata desunta, con motivazione logica e insindacabile in questa sede, proprio a ragione delle modalità di verificazione dell'incidente lavorativo, particolarmente indicativo di un deficit di formazione dei lavoratori. Il datore di lavoro, per quanto consta dalla sentenza impugnata, non ha adempiuto all'obbligo di legge su di lui direttamente incombente di somministrare ai suoi dipendenti adeguata informazione sui rischi generali e specifici per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività dell'impresa ed in relazione all'attività svolta, ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 81/2008.
Le sentenze di merito hanno concordemente e correttamente evidenziato come il comportamento dei lavoratori non possa essere qualificabile come anomalo o imprevedibile, così da escludere la responsabilità del datore di lavoro, posto che il G.P. e l'B.A. hanno posto in essere un'operazione sicuramente rientrante nelle mansioni loro delegate. Non vi è, perciò, spazio - diversamente da quanto asserito dal ricorrente - per valorizzare la condotta imprudente degli operai deceduti quale causa sopravvenuta sufficiente di per sé sola a determinare il tragico evento, non potendosi affermare che la detta attività abbia innescato un rischio nuovo ed incommensurabile rispetto a quello ordinariamente derivante dalla medesima attività.
2.4. Il quarto motivo è manifestamente infondato, atteso che nel caso di specie non si pone un problema di prevedibilità in concreto dell'Incidente mortale da parte del datore di lavoro, venendo in rilievo profili di colpa specifici che già di per sé contengono un giudizio di prevedibilità, immanente alle regole cautelari violate, specificamente finalizzate a prevenire il rischio poi tragicamente concretizzatosi.
3. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna del D.T. e delle parti civili ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
1.1. Si tratta di ricorsi i cui motivi sono ai limiti della inammissibilità, in quanto prospettano, in prevalenza, generiche censure di merito, essendo accomunati dal fatto che essi contestano a vario titolo la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte territoriale in relazione alla posizione di responsabilità del M.R. con riferimento all'incidente mortale in disamina.
Giova qui ribadire che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità «deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali» (in tal senso, ex plurimis, Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite, le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv. 207945). La Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica deM'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasta preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, n. 17905 del 23/03/2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 1, n. 1769 del 23/03/1995, Rv. 201177; Sez. 6, n. 22445 in data 8.05.2009, Rv. 244181).
1.2. Nel caso in disamina, con specifico riferimento alla posizione del M.R., la Corte territoriale ha congruamente e logicamente motivato in ordine alla esclusione di responsabilità del medesimo, accertando che costui aveva stilato idonea documentazione nella quale si dava atto dei rischi connessi ai lavori svolti in vasche e cisterne, ed inoltre aveva messo a disposizione dei dipendenti i necessari dispositivi di protezione utili allo svolgimento delle predette mansioni, garantendo la salubrità dei luoghi di lavoro.
In tal modo, il giudice di appello ha riscontrato l'assenza di specifiche omissioni colpose addebitabili al M.R., in linea con l'insegnamento di questa Corte secondo cui il responsabile del servizio di prevenzione e protezione risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, solo degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l'adozione di misure prevenzionali doverose (Sez. 4, n. 2814 del 21/12/2010 - dep. 27/01/2011, Di Mascio, Rv. 24962601). Nulla di tutto questo è stato riscontrato dalla Corte territoriale, e le opposte considerazioni dei ricorrenti, secondo cui le emergenze probatorie condurrebbero gli esiti del giudizio in senso diametralmente opposto, pretendono di ottenere dalla Corte di cassazione una rivalutazione dei dati probatori finalizzata ad una diversa ed alternativa ricostruzione dei fatti che non è consentita in sede di legittimità, a fronte di una motivazione che non può dirsi affetta da incoerenza o da manifesta illogicità.
1.3. Per il resto, le doglianze dei ricorrenti in ordine a presunti vizi motivazionali da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata sono generiche ed inconsistenti, posto che neanche vengono indicati quali sarebbero i punti decisivi o rilevanti che non sarebbero stati compiutamente affrontati dal giudice di appello rispetto alle argomentazioni della sentenza di primo grado, al di là dell'asserita gestione "familiare" della ditta presso cui il M.R. prestava servizio, dato che di per sé solo appare neutro rispetto al più ampio tema della sussistenza di specifiche omissioni addebitabili al M.R..
1.4. Non sono poi fondate le censure articolate dalle parti civili in merito all'obbligo da parte del giudice di appello, prima di decidere in senso assolutorio, di procedere alla rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative.
Al riguardo è stato ormai definitivamente affermato il principio secondo cui il giudice d'appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale mediante l'esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017 - dep. 2018, P.G. in proc. Troise, Rv. 27243001). L'autorevole consesso ha chiarito che il principio della presunzione di non colpevolezza svolge un fondamentale ruolo di riequilibrio dell'ordine processuale, poiché, mentre il pubblico ministero è tenuto a provare i fatti costitutivi di un reato "al di là di ogni ragionevole dubbio", per l'imputato è sufficiente insinuare il dubbio circa l'esistenza di elementi negativi a discarico o impeditivi ai fini dell'accertamento della sua responsabilità. Ne discende che il sistema del processo penale - contrariamente a quanto affermato in ricorso - non presenta affatto un'architettura simmetrica, rilevando in tale prospettiva le implicazioni sottese alle regole di applicazione del principio posto dall'art. 27, secondo comma, Cost., con il corrispondente quadro normativo ordinario delineato negli artt. 530, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen. L'asimmetricità del sistema è conseguenza proprio delle regole di giudizio di cui ai predetti articoli, che impongono la condanna solo se la colpevolezza dell'imputato è provata «al di là di ogni ragionevole dubbio», mentre l'assoluzione può (e deve) essere pronunciata «anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile». La necessità di rinnovazione istruttoria delle prove dichiarative decisive - anche in caso di giudizio abbreviato - serve a vincere il ragionevole dubbio; dubbio rappresentato, appunto, da una precedente sentenza di assoluzione. L'assoluzione dopo una condanna, invece, non deve superare alcun dubbio, perché è la condanna che deve intervenire al di là di ogni ragionevole dubbio, non certo l'assoluzione (giusta la regola di cui all'art. 530, comma 2, cod. proc. pen.).
2. Anche il ricorso del D.T. è infondato e meritevole di rigetto.
2.1. Quanto al primo motivo, è appena il caso di rilevare che la questione del concorso di colpa della vittima non è stata specificamente dedotta nell'atto di appello, pertanto la stessa non può essere esaminata in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 27120 del 05/03/2015, Ottonello e altro).
2.2. Quanto al secondo motivo, si osserva che non è dato riscontrare alcuna contraddittorietà nel percorso argomentativo della sentenza impugnata in ordine alla valutazione della responsabilità del ricorrente rispetto a quella del M.R..
In primo luogo, non possono ritenersi equivalenti le posizioni di responsabilità del D.T. e del M.R. rispetto all'Infortunio mortale in esame, che ha riguardato due dipendenti del D.T., mentre il M.R. era responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP) di una ditta diversa rispetto a quella del D.T..
E' infatti evidente che laddove la Corte di appello addebita al D.T. profili colposi che attengono, essenzialmente, alla riscontrata disorganizzazione aziendale della ditta in cui operavano i lavoratori deceduti, viene in rilievo la specifica posizione del D.T. quale datore di lavoro, in alcun modo equiparabile, sotto il profilo degli obblighi riconducibili a tale posizione di garanzia, con quella del M.R. quale RSPP di una ditta diversa.
Sotto un diverso, ma connesso, profilo, il riscontrato deficit di formazione dei lavoratori deceduti, cui si accenna anche nella sentenza di primo grado, non può che essere imputato al datore di lavoro - e non certo allo RSPP di un'altra azienda - avuto riguardo al ruolo centrale di tale figura nel sistema prevenzionistico, quale primo destinatario del generale obbligo di sicurezza di cui all'art. 2087 cod. civ., in quanto garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (Sez. 4, n. 4361 del 21 ottobre 2014, Ottino, Rv. 26320001); e fra i numerosi obblighi a suo carico in tale ambito, è sempre sul datore di lavoro che grava il fondamentale obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio 2015, Vallani, Rv. 26517801; Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 25921901).
La circostanza che il D.T. non fosse stato avvertito del lavoro da eseguire da parte dei suoi due dipendenti, è stata adeguatamente considerata nella sentenza impugnata, che in maniera congrua e razionale, oltre che corretta in diritto, ne ha inferito che ciò non esonerava il D.T. dagli obblighi a lui attribuiti ex lege, denotando anzi proprio tale circostanza una notevole disorganizzazione nella gestione dell'attività lavorativa, nonostante i doveri incombenti sul datore di lavoro di organizzare in maniera tecnicamente adeguata l'attività lavorativa dei dipendenti in maniera tale da assicurarne la sicurezza, anche in presenza di comportamenti colposi degli stessi; cui sono ricollegabili gli ulteriori doveri, sempre incombenti sul datore di lavoro, di prevenzione informativa e formativa del personale nonché di necessaria vigilanza e controllo sull'operato dei propri subordinati.
Il datore di lavoro non può invocare a propria scusa il principio di affidamento, assumendo che l’attività del lavoratore era imprevedibile, essendo ciò doppiamente erroneo, da un lato in quanto l'operatività del detto principio riguarda i fatti prevedibili e dall'altro atteso che esso comunque non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia, come certamente è quella del datore di lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A, Rv. 21499701).
L'addebito che viene mosso al D.T., sulla base di una valutazione del compendio probatorio e di un iter motivazionale che non è sindacabile in questa sede in quanto non affetto da incongruenza o manifesta illogicità, è essenzialmente quello di avere approntato un sistema di sicurezza aziendale che presentava delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (Sez. 4, n. 22813 del 21/04/2015, Palazzolo).
Del resto, proprio dalle accertate modalità con le quali si è verificato l'infortunio mortale in disamina, sono state desunte le carenze organizzative ed il deficit di formazione dei lavoratori, imputabili al datore di lavoro D.T., tenuto conto della riscontrata imprudenza con la quale il G.P. e l'B.A. hanno posto in essere l'attività rivelatasi fatale, calandosi nella cisterna senza munirsi degli adeguati dispositivi di protezione (imbracatura, mascherine e bombole d'ossigeno). In tale ottica va letta l'affermazione della Corte di appello in ordine al deficit organizzativo e di formazione addebitabile al D.T., essendo stato accertato che tali aspetti - fondamentali in materia di sicurezza - erano stati informalmente delegati proprio al G.P., rivelando così la palese ed indebita sottrazione del D.T. agli obblighi prevenzionistici su di lui specificamente incombenti ai sensi di legge.
In definitiva, la sentenza impugnata ha esaurientemente argomentato in ordine alle omissioni colpose imputabili al D.T., cui viene, fondamentalmente, rimproverato di avere indebitamente "lasciato a loro stessi" il G.P. e l'B.A. nello svolgimento di una attività lavorativa pericolosa, disinteressandosi dei profili di organizzazione aziendale e di necessaria formazione dei dipendenti sotto il profilo della sicurezza prevenzionistica.
2.3. Il terzo motivo è parimenti infondato, per le stesse ragioni che sono già state dianzi rappresentate.
L'inadeguatezza della formazione dei lavoratori da parte del D.T. è stata desunta, con motivazione logica e insindacabile in questa sede, proprio a ragione delle modalità di verificazione dell'incidente lavorativo, particolarmente indicativo di un deficit di formazione dei lavoratori. Il datore di lavoro, per quanto consta dalla sentenza impugnata, non ha adempiuto all'obbligo di legge su di lui direttamente incombente di somministrare ai suoi dipendenti adeguata informazione sui rischi generali e specifici per la salute e sicurezza sul lavoro connessi alla attività dell'impresa ed in relazione all'attività svolta, ai sensi dell'art. 36 d.lgs. n. 81/2008.
Le sentenze di merito hanno concordemente e correttamente evidenziato come il comportamento dei lavoratori non possa essere qualificabile come anomalo o imprevedibile, così da escludere la responsabilità del datore di lavoro, posto che il G.P. e l'B.A. hanno posto in essere un'operazione sicuramente rientrante nelle mansioni loro delegate. Non vi è, perciò, spazio - diversamente da quanto asserito dal ricorrente - per valorizzare la condotta imprudente degli operai deceduti quale causa sopravvenuta sufficiente di per sé sola a determinare il tragico evento, non potendosi affermare che la detta attività abbia innescato un rischio nuovo ed incommensurabile rispetto a quello ordinariamente derivante dalla medesima attività.
2.4. Il quarto motivo è manifestamente infondato, atteso che nel caso di specie non si pone un problema di prevedibilità in concreto dell'Incidente mortale da parte del datore di lavoro, venendo in rilievo profili di colpa specifici che già di per sé contengono un giudizio di prevedibilità, immanente alle regole cautelari violate, specificamente finalizzate a prevenire il rischio poi tragicamente concretizzatosi.
3. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna del D.T. e delle parti civili ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi dell'imputato D.T. e delle parti civili, che condanna al pagamento delle spese processuali. Rigetta il ricorso del Procuratore generale.
Così deciso il 23 ottobre 2018
Così deciso il 23 ottobre 2018