Infortunio con una pressa di stampaggio a caldo
Obbligo di formazione
Penale Sent. Sez. 4 Num. 54803 Anno 2018
Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA
Data Udienza: 14/09/2018
1. La corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del tribunale di Lecco, con la quale V.M.M., nella qualità di legale rappresentante della VG V. s.r.l., era stata condannata per il reato di cui all'art. 590 cod. pen. ai danni del lavoratore dipendente DB.I., posto in essere per colpa consistita In negligenza, imprudenza ed imperizia, nonché per violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 37 d.lgs. 81/08).
2. In particolare, il lavoratore, intento ad operare su una pressa di stampaggio a caldo per la produzione di piccoli pezzi metallici, denominati "gomiti", aveva prelevato un pezzo incandescente dal nastro con le pinze, introducendo la mano sinistra sotto lo stampo e premendo inavvertitamente con il piede il comando a servizio della pressa, permettendo a questa di effettuare un altro ciclo di lavorazione mentre aveva ancora la mano sotto lo stampo, determinando così l'infortunio dal quale erano derivate le lesioni personali, meglio descritte in rubrica.
3. L'imputata ha proposto ricorso con proprio difensore, formulando un unico motivo, con il quale ha dedotto violazione di legge e vizio della motivazione con riferimento agli obblighi di formazione del lavoratore e al nesso di causalità.
In particolare, la difesa ha censurato la decisione con riferimento alla valutazione della interferenza della condotta della vittima sul nesso causale, che ha ritenuto abnorme, in considerazione del fatto che il ciclo produttivo prevedeva espressamente che l'operatore non inserisse gli arti nell'area di lavoro, avendo peraltro il DB.I. omesso di utilizzare i dispositivi di sicurezza forniti.
Sotto altro profilo, la parte ha rilevato la difficoltà di comprendere quale fosse il grado di formazione richiesto per impedire la condotta tenuta dal lavoratore o, comunque, per scongiurare la situazione di pericolo insita nell'operare con le mani nell'area di lavoro di una pressa, ciò anche a ritenere che la formazione sul funzionamento del macchinario fosse durata solo poche ore.
Infine, si è rilevato che il DB.I., fin dal suo arrivo in V., era stato sottoposto ad un iter formativo teorico e pratico, con affiancamento da parte di personale esperto ed era stato addetto a cicli di lavoro ridotti al fine di consentirne il graduale inserimento al lavoro.
1. Il ricorso è inammissibile.
2. A fronte delle specifiche doglianze dell'appellante (con cui si proponevano i temi sviluppati in ricorso, vale a dire la sufficienza e adeguatezza della formazione ricevuta dal lavoratore e la condotta abnorme di costui), la corte milanese ha respinto il gravame di merito, focalizzando l'attenzione su alcuni elementi ritenuti di carattere dirimente.
L'istruttoria aveva confermato, infatti, che il lavoratore infortunato - assunto da poco tempo - era stato addetto alla pressa solo qualche giorno prima dell'infortunio; egli aveva affermato di essere uno stampatore, ma non aveva alcuna competenza nello specifico settore, come appurato dai colleghi di lavoro; la formazione impartitagli era stata dunque del tutto insufficiente, perché il corso generale sul funzionamento dei macchinari era durato solo quattro ore ed egli era stato avviato a lavorare da solo sul macchinario in questione dopo appena due giorni, senza una previa verifica pratica e in assenza di un vero e proprio affiancamento e di una concreta supervisione, come pure previsto dall'art. 5.1 della procedura per la formazione del personale in vigore presso l'azienda.
Sul punto, la corte ambrosiana ha stigmatizzato la circostanza che l'obbligo di formazione non si esaurisce nel passaggio di conoscenze teoriche e pratiche al dipendente, dovendo il soggetto obbligato verificare anche che esse siano divenute patrimonio acquisito in concreto, ciò che solo una effettiva prova pratica, sotto la supervisione di un tutor può garantire, rilevando che, nel caso di specie, la completa estraneità del DB.I. a quella specifica attività era constatabile da chiunque e spiegava ampiamente il comportamento scorretto tenuto dal predetto.
3. Il motivo è manifestamente infondato.
Con esso si introducono i temi, invero tra loro correlati, della adeguatezza della formazione ricevuta dal dipendente e della abnormità della condotta tenuta dal DB.I. nell'occorso.
La corte di merito ha motivato in ordine ad entrambi i profili, fornendo una giustificazione del tutto logica, oltre che coerente con i dati fattuali emersi nell'istruttoria, neppure contestati nella loro storicità, della ritenuta violazione dell'obbligo di formazione e della non abnormità della condotta del lavoratore, proprio alla luce della comprovata inesperienza del DB.I. rispetto all'uso di quello specifico macchinario.
3.1. Quanto al soddisfacimento dell'onere motivazionale da parte della corte territoriale, deve rilevarsi intanto che la motivazione della sentenza impugnata deve essere valutata anche alla luce delle argomentazioni che hanno sostenuto la conforme decisione del tribunale, sia pure attraverso il filtro delle doglianze formulate in appello. Infatti, in tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, si è precisato che, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relazione; quando invece sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte [cfr. sez. 6 n. 28411 del 13/11/2012 ud. (dep. 01/07/2013), Rv. 256435].
Nel caso in esame, non soltanto è rinvenibile nel documento impugnato il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale, attraverso la puntuale esposizione degli elementi fattuali ai quali è stata ancorata la decisione, ma essa è coerente con il costante orientamento di questa corte di legittimità.
3.2. Si è, infatti, più volte affermato che il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, a titolo di colpa specifica, dell'Infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi [cfr. sez. 4 n. 39765 del 19/05/2015, Vallarti, Rv. 265178 (nella specie, il lavoratore, che si era trovato nella necessità di sganciare il rimorchio di un autocarro, si procurava la morte rimanendo schiacciato fra le due parti del veicolo mentre stava procedendo ad un incauto riaggancio, non rispettando quelle misure di sicurezza che una specifica formazione gli avrebbe sicuramente fatto conoscere)].
Tale obbligo, peraltro, non è escluso, né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro (cfr. sez. 4 n. 22147 dell'01/02/2016, Morini, Rv. 266860), ciò che non è neppure accaduto nel caso all'esame.
Infatti, l'apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge (cfr. sez. 4 n. 21242 del 12/10/2014, Nogherot, Rv. 259219).
3.3. Per quanto attiene, poi, al presunto comportamento abnorme del lavoratore, costituisce ormai ius recepetum nella giurisprudenza di questa sezione il principio secondo cui, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (cfr. Sez. 4 n. 22249 del 14/03/2014, Rv. 259127). Sempre con riferimento al concetto di "atto abnorme", si è pure precisato che tale non può considerarsi il compimento da parte del lavoratore di un'operazione che, pure inutile e imprudente, non sia però eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell’ambito del ciclo produttivo (cfr. Sez. 4 n. 7955 del 10/10/2013 Ud. (dep. 19/02/2014), Rv. 259313).
L'abnormità del comportamento del lavoratore, dunque, può apprezzarsi solo in presenza della imprevedibilità della sua condotta e, quindi, della sua ingovernabilità da parte di chi riveste una posizione di garanzia. Sul punto, si è peraltro efficacemente sottolineato che tale imprevedibilità non può mai essere ravvisata in una condotta che, per quanto imperita, imprudente o negligente, rientri comunque nelle mansioni assegnate, poiché la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standards di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro. Il che, lungi dall’avallare forme di automatismo che svuotano di reale incidenza la categoria del "comportamento abnorme", serve piuttosto ad evidenziare la necessità che siano portate alla luce circostanze peculiari - interne o esterne al processo di lavoro - che connotano la condotta dell'infortunato in modo che essa si collochi al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso (cfr. in motivazione Sez. 4 n. 7955/2013 richiamata). Tale comportamento "...è "interruttivo" (per restare al lessico tradizionale) non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare" (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094).
4. All'inammissibilità segue, a norma dell'art. 616, cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Deciso in Roma il 14 settembre 2018.