Sicurezza lavoro

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav n. 4721 | 09 Maggio 1998

Sentenze cassazione civile

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. 09 Maggio 1998 n. 4721

Amianto e normativa: art. 2087 c.c.

***

Ritenuto

R.C. (nato l'8 novembre 1944), già dipendente della Cemental S.p.a. (impresa produttrice di manufatti di cemento amianto) dal 1959 al 1970 e, successivamente, per un breve periodo, nel 1985, decedeva il giorno 24 luglio 1987 a causa di mesotelioma peritoneale diagnosticato il 28 dicembre 1986.

Il 23 maggio 1989 l'INAIL comunicava a C.I., moglie del R.C., che, in dipendenza dell'evento mortale, avrebbe provveduto a costituire rendita a favore degli aventi diritto, così riconoscendo la natura processionale della malattia che aveva condotto a morte l'assicurato.

A seguito di rapporto inoltrato alla Procura della Repubblica in sede dal servizio di medicina preventiva e igiene del lavoro della U.S.L. n. 11, venivano avviate indagini per verificare la sussistenza di eventuali responsabilità per omicidio colposo in relazione al decesso del R.C.. Il procedimento si concludeva con decreto di archiviazione pronunciato il 18 settembre 1989.

Con ricorso al Pretore di Reggio Emilia in funzione di giudice del lavoro depositato il 29 giugno 1990, C.I., in proprio e quale esercente la potestà sui figli minori Andrea e Claudia, conveniva in giudizio la Cemental S.p.A. chiedendo - previo accertamento della derivazione causale della malattia che aveva cagionato la morte del coniuge dalla esposizione a polveri di amianto durante l'attività prestata alle dipendenze della convenuta, e della omessa adozione, da parte della società datrice di lavoro, delle cautele, imposte dalla normativa antinfortunistica (art. 21 D.P.R. n. 303 del 19 marzo 1956) e dall'art. 2087 c.c., per evitare o ridurre il rischio di esposizione dei lavoratori alla inalazione delle polveri di amianto - la condanna della convenuta stessa al risarcimento dei danni da essi congiunti subiti in conseguenza della morte del rispettivo marito e padre.

La Cemental S.p.A. si costituiva in giudizio negando la propria responsabilità.

Assumeva, da un lato, che non vi era prova sicura di "un preciso rapporto di causa - effetto tra la lavorazione, la malattia e la morte del R.C."; dall'altro, che comunque non sussistevano i profili di colpa addotti da parte attrice a sostegno della domanda, avendo essa convenuta adottato tutte le misure che, secondo le cognizioni tecniche e l'esperienza dell'epoca in cui il R.C. aveva lavorato alle sue dipendenze, apparivano necessarie a tutelare l'integrità fisica del lavoratore.

Nel corso dell'istruttoria venivano prodotti documenti, esperita consulenza tecnica ed assunte prove testimoniali (queste ultime al fine di ricostruire le mansioni alle quali era adibito il R.C. e le condizioni ambientali del luogo di lavoro).

Il Pretore, con sentenza n. 173 pronunciata il 10 marzo 1993, rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza hanno interposto appello C.I. (anche nella qualità di esercente la potestà parentale su R.C. Claudia) e R.C. Andrea (divenuto maggiorenne), chiedendo l'accoglimento della domanda già proposta in primo grado. Assumevano gli appellanti che erroneamente il pretore aveva tratto la prova della assenza di fibre di amianto in misura non consentita nell'ambiente di lavoro, da quanto risultato in sede di autopsia ed in particolare dalla assenza di asbestosi; che in ogni caso vi è una specie di amianto (lo crocidolite) che non sempre è rinvenibile nell'organismo; che erronee erano state le valutazioni delle prove testimoniali raccolte, ed irrilevanti, ai fini della decisione, sia la collocazione, sia le mansioni del lavoratore deceduto, laddove si era trascurato di valutare che la manipolazione dell'amianto avveniva senza alcuna precauzione e la diffusione della polvere di amianto era incontrollata..... in un unico capannone sprovvisto di divisioni .... privo.... di qualsiasi protezione contro la diffusione delle polveri di amianto; infine non si era tenuto conto che il 1^ ottobre 1976 era risultato accertato il mancato rispetto della concentrazione massima consentita di fibre di amianto nel luogo della lavorazione svolta dalla s.p.a. Cemental.

La Cemental S.r.l. (succeduta alla Cemental S.p.a. a seguito di cessione di ramo di azienda dalla Cemental S.p.a. alla Soinco S.r.l. e assunzione da parte di quest'ultima della ragione sociale Cemental S.r.l.) si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto del gravame.

Il tribunale, con la sentenza n. 402 dell'8 maggio 1995, rigettava l'appello proposto avverso la sentenza del Pretore di Reggio Emilia.

Ricordava in particolare il tribunale come il pretore avesse ritenuto:

che la collocazione del posto di lavoro del R.C. (a circa 50 m. da dove veniva formato l'impasto di amianto), e le sue mansioni (lavorazione di materiale umido o parzialmente essiccato), non consentivano di ritenere provata.... nè una particolare polverosità dell'ambiente, nè che fossero state omesse le misure atte a ridurle. Affermava la sentenza che la patologia che aveva condotto a morte il R.C. (mesotelioma peritoneale) era un c.d. tumore segnale del contatto del soggetto con l'amianto, che poteva conseguire anche ad esposizione assai modesta del lavoratore a tale sostanza, l'esame autopico e le visite mediche in corso di rapporto di lavoro avevano, per contro, escluso che il R.C. fosse affetto da asbestosi polmonare, malattia..... manifestantesi con maggiore gravità e frequenza quanto più sia elevata l'entità della esposizione espressa come concentrazione media ambientale o come dose cumulativa ritenuta nel polmone. Anche il tipo di malattia, dunque, non era significativa di una consistente esposizione all'agente patogeno. Inoltre che non risultavano contestate alla Cemental s.p.a. violazioni dell'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 19 marzo 1956 o superamenti, se non episodici, delle concentrazioni di amianto nell'aria, prescritti dall'autorità sanitaria, in progressivo recepimento delle acquisizioni scientifiche.

Il tribunale, in particolare, riteneva che occorreva accertare quali fossero le cautele necessarie che erano state, eventualmente, omesse e se la loro mancanza aveva cagionato l'evento; ricordava che, con riguardo alla dispersione di polveri di amianto nel luogo di lavoro, vi era stata una evoluzione in senso progressivamente restrittivo della disciplina, essendosi passati dal livello di concentrazione di 12 per centimetro cubo nel 1970 (epoca della cessazione del rapporto di lavoro del R.C. presso la s.p.a.

Cemental, per quanto rilevante ai fini della genesi della malattia), alla abolizione sancita dalla legge 27 marzo 1992 n. 257; ma ciò consentiva, secondo la motivazione del tribunale, di affermare che i dispositivi di aspirazione delle polveri e dei vapori nelle immediate adiacenze del luogo di lavoro, a prescindere da ogni considerazione sulla loro doverosità in relazione alle cognizioni tecniche ed all'esperienza allora acquisita in ordine alla nocività delle fibre di amianto, non sarebbero state in grado, secondo ragionevole previsione, di impedire l'evento, essendo l'unico mezzo... di prevenire il pericolo della insorgenza del mesotelioma.... quello di cessare l'impiego di tale elemento patogeno. Da ciò discendeva la mancanza di prova in ordine al nesso causale tra condotta omissiva ed evento. Irrilevante si palesava, inoltre, l'accertamento compiuto nel 1976, dal quale risultava una concentrazione di 5,02 fibre, laddove ne era consentita una massima pari a 12 fibre per centimetro cubo.

Irrilevanti del pari le testimonianze in ordine alla assenza di cautele ed alla polverosità nel luogo di lavoro, contrastando queste con i soli elementi di carattere obbiettivo (contrazione da parte del R.C. di tumore - segnale con esclusione di patologie dose - dipendenti; mancata contestazione alla Cemental s.p.a., nel corso degli anni, di violazioni dell'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 1956 o di superamenti delle concentrazioni di amianto nell'aria prescritte dall'autorità sanitaria; modificazione progressiva degli impianti e delle strutture secondo le richieste e prescrizioni delle autorità sanitarie) che è stato possibile acquisire e che sono stati puntualmente evidenziati dal giudice a quo.

Contro questa sentenza hanno proposto ricorso Capitani Irena, R.C. Andrea e R.C. Claudia, nella qualità; resiste con controricorso la società che ha presentato memoria. 

[panel]Considerato

Con l'unico motivo di ricorso, i ricorrenti si dolgono per la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 cod. civ. e per insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.), per aver affermato la impugnata sentenza che le misure preventive adottate dalla datrice di lavoro del loro dante causa erano risultate sufficienti, essendo accertata una concentrazione di fibre di amianto, nell'ambiente di lavoro, inferiore al massimo consentito; in tal modo non aveva tenuto conto che in alcune fasi della lavorazione - come riferito da testi specificamente indicati -, ed in particolare durante lo stivaggio ed il prelievo, le fibre di amianto erano certamente in numero di gran lunga superiore al limite massimo allora ritenuto tollerabile; incombeva, in ogni caso al datore di lavoro dare la dimostrazione di aver fatto tutto il possibile per evitare il determinarsi del danno alla salute del lavoratore, ed in particolare di avere mantenuto l'ambiente di lavoro in condizioni di non pericolosità, adeguando con mezzi tecnici che la scienza già allora imponeva, quali aspiratori, maschere, ecc. ed imponendo metodi di lavorazione non pericolosi, quali l'uso di attrezzature idonee ad evitare l'inquinamento ambientale durante la manipolazione dell'amianto; il tribunale aveva omesso di considerare che, secondo quanto accertato dallo stesso tribunale, nel periodo dal 1970 al 1978, cioè immediatamente dopo la cessazione del rapporto di lavoro - ripreso per un breve periodo nel 1985 -, il precedente limite di 12 fibre per c.c. era stato ridotto a 2 fibre per centimetro cubo.

Il ricorso è fondato.

È noto che, vigente l'art. 4 del R.D. n. 1765 del 1935, a seguito della approvazione del nuovo codice civile, si era posto il problema se l'art. 2087 del cod. civ. avesse comportato l'abrogazione della esenzione prevista da quella norma per il datore di lavoro.

Sia la dottrina che la giurisprudenza (Cass. 16 maggio 1968 n. 1541, 21 giugno 1969 n. 2236) pervennero, non senza contrasti, alla conclusione che l'art. 2087 non avesse abrogato la precedente disciplina, e ciò in quanto non si trattava di una disposizione innovatrice dell'intera materia, in quanto essa non pone obblighi qualitativamente diversi dai precedenti, ed ha la stessa estensione.

È stato ritenuto che si tratta in effetti di norme che operano su piani diversi così che tra le medesime non si profila un rapporto di incompatibilità, bensì di integrazione, nel senso cioè che la violazione degli obblighi di sicurezza enunciati sinteticamente dall'art. 2087 cod. civ., può costituire, ai sensi dell'art. 43 cod. pen., elemento di colpa per violazione di leggi, suscettibile di dare vita a responsabilità civile. In questo senso l'art. 2087 può intendersi come clausola generale integrativa dell'art. 43, ult. parte, cod. pen..

È questa la ragione perché ripetutamente questa Suprema Corte ha ribadito che la normativa speciale di prevenzione non esaurisce l'obbligo di prevenzione e di profilassi del datore di lavoro rispetto ai prestatori di opera.

Si deve premettere, come questo Supremo Collegio ha ripetutamente affermato (Cass. 29 gennaio 1970 n. 199, 13 luglio 1971 n. 2287, 12 gennaio 1973 n. 104, 11 ottobre 1979 n. 5315, 16 aprile 1986 n. 2692, 23 giugno 1986 n. 4171, 7 marzo 1987 n. 2417, 7 aprile 1988 n. 2737, 6 settembre 1988 n. 5048, 29 maggio 1990 n. 5002, 26 gennaio 1993 n. 937, 8 febbraio 1993 n. 1523, 5 aprile 1993 n. 4085, 17 novembre 1993 n. 11351, 1 febbraio 1995 n. 1168, 23 febbraio 1995 n. 2035, 29 marzo 1995 n. 3738, 6 settembre 1995 n. 9401), che l'art. 2087 del cod. civ., il quale sancisce come dovere fondamentale dell'imprenditore quello di provvedere alla tutela della integrità fisica del prestatore d'opera, ha un valore sussidiario rispetto alla normativa speciale dettata per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto presuppone che risultino insufficienti o inadeguate le misure all'uopo previste dalla detta normativa speciale.

Questo Supremo Collegio ha già affermato (Cass. n. 12661 del 1 dicembre 1995) che incombe sul lavoratore, che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro nonché il nesso di causalità fra l'una e l'altro; solo ove tale prova venga fornita sorge la responsabilità del datore di lavoro in relazione al suddetto danno, ed il conseguente onere di provare l'avvenuta adozione di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno alla salute dei propri dipendenti. D'altra parte (Cass. 13 luglio 1971 n. 2287, 9 dicembre 1971 n. 3559, 12 gennaio 1973 n. 104, 19 maggio 1977 n. 2053, 2 maggio 1981 n. 2654, 11 agosto 1983 n. 5351, 2 dicembre 1983 n. 7224, 6 settembre 1988 n. 5048, 6 settembre 1991 n. 9422, 26 gennaio 1993 n. 937, 5 aprile 1993 n. 4085, 19 agosto 1996 n. 7636, 12 dicembre 1997 n. 12604), nonostante la natura prevalentemente contrattuale dell'obbligazione nascente dall'art. 2087 cod. civ., quest'ultimo si atteggia, in realtà, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, nel senso che, anche dove faccia difetto la previsione normativa di una specifica misura preventiva, e, anzi, presupponendo che risultino insufficienti o inadeguate le misure previste dalla normativa speciale, la disposizione suddetta impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure generiche di prudenza, diligenza e la osservanza delle norme tecniche e di esperienza. È in sostanza una norma aperta, volta a supplire alle lacune di una disciplina speciale che non può prevedere ogni fattore di rischio. Una norma, tra l'altro, che tiene conto del fatto che la violazione di norme di prevenzione speciale resta sovente impunita per le gravi carenze strutturali ed organizzative degli organismi preposti ai controlli ed alla vigilanza.

Deve invece escludersi che l'art. 2087 cod. civ. sia riconducibile ad una forma di responsabilità oggettiva (Cass. 26 ottobre 1995 n. 11120, 22 aprile 1997 n. 3455, 10 maggio 1997 n. 4097, 3 settembre 1997 n. 8422, 21 ottobre 1997 n. 10361); il principio "nessuna imputazione di illecito se non a titolo di colpa" ha sicuramente avuto ingresso nel nostro ordinamento giuridico e ad esso deve costantemente riferirsi l'interprete in questa materia. Deve negarsi la responsabilità ogni volta che la prestazione non era eseguibile, la diligenza richiesta non era esigibile (concetto assimilabile alla impossibilità, sia pure entro i limiti del non dovuto e del non dedotto in obbligazione). Non può pretendersi l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche assolutamente impensabili ed eccezionali alla comune esperienza; occorre riferirsi a quei presidi che la tecnica pone normalmente a disposizione, non a congegni e dispositivi tecnici mai da alcuno applicati o addirittura inesistenti sul mercato. Neppure può pretendersi che il datore di lavoro ricerchi a proprie spese nuove misure di prevenzione o compia sperimentazioni, ma che applichi le misure conosciute e necessarie secondo la comune esperienza e tenendo conto delle cognizioni tecniche acquisite dalla scienza.

Versandosi in tema di responsabilità contrattuale, questa è delimitata da due norme fondamentali: l'art. 1218 cod. civ. che esclude per il debitore il ristoro del danno se dovuto a causa a lui non imputabile, e l'art. 1176 cod. civ. che impone nell'adempimento la diligenza del buon padre di famiglia, e, inoltre che nell'esercizio di una attività professionale la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata. È proprio la inosservanza delle cautele doverose che integra la colpa contrattuale e l'inadempimento, poiché, secondo la legge del contratto, che, in materia di prevenzione e di sicurezza, per il rapporto di lavoro è l'art. 2087 cod. civ., l'evento (dannoso) era evitabile con l'adozione delle cautele e degli accorgimenti tecnici da ritenere connaturali al tipo di attività esercitata e commisurati alla entità del rischio, e, del resto, previsti dalla disciplina generale della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il lavoratore (il quale, beninteso ha anche il dovere di rispettare tutte le norme di sicurezza, speciali e generali, che sono di interesse pubblico: Cass. 22 dicembre 1987 n. 9535), rispetto alla loro osservanza è creditore, perché il datore di lavoro è contrattualmente obbligato (Cass. 23 marzo 1991 n. 3115), e la loro mancata attuazione rende il datore di lavoro inadempiente, e, in quanto tale, contrattualmente (oltre che extracontrattualmente) responsabile (Cass. 8 aprile 1995 n. 4078, 17 luglio 1995 n. 7768).

Non può essere trascurato che l'art. 2087 cod. civ., lungi dall'essere una norma eccezionale, rientra in una categoria di norme che potrebbe ben essere identificata con l'espressione, adottata dalla dottrina, di norme che impongono obblighi di protezione; ne sono esempi, come noto, gli artt. 1681, 2050 - almeno per coloro che escludono trattarsi di un caso di responsabilità oggettiva - ("se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno"), 1785 bis del cod. civ. e 409, 412, 942 ("a meno che provi che egli e i suoi dipendenti e preposti hanno preso tutte le misure necessarie e possibili, secondo la normale diligenza, per evitare il danno") del cod. nav., un criterio analogamente rigoroso, con il limite della forza maggiore e el caso fortuito, è posto dagli artt. 1693, 1785 n. 2, 1787 e 1839 cod. civ.. - In questi casi, il limite della responsabilità per rischio di impresa, identificato nella causa estranea ai rischi che l'imprenditore può prevedere, è a sua volta integrato dal criterio della sussistenza della colpa: posto che l'imprenditore ha calcolato un certo tipo di rischi, si deve infatti verificare se in concreto, usando della ordinaria diligenza (art. 1176 cod. civ., e, nei confronti di prestatore di opera, art. 2087 cod. civ.) quella causa identificata come estranea, fosse egualmente evitabile (per una fattispecie nella quale questo iter argomentativo è stato percorso, cfr. Cass. 29 maggio 1990 n. 5002); è quello che in dottrina viene considerato come un limite al c.d. criterio soggettivo della colpa, e che viene identificato come l'emersione di un modello oggettivo di imputazione nel campo della responsabilità d'impresa, da tenere distinta dalla responsabilità oggettiva.

È appena il caso di sottolineare, tuttavia, come in relazione alla obbligazione di protezione, della quale, nell'ambito del rischio di impresa, il lavoratore è creditore ai sensi del richiamato art. 2087 cod. civ., non è certo ipotizzabile una tutela inferiore ai casi esaminati, nei quali nè la persona del creditore, nè l'oggetto della prestazione, sono destinatari di una tutela privilegiata (art. 35 della Costituzione): principio questo, al quale l'interprete deve necessariamente richiamarsi.

Si deve a questo riguardo ricordare come la dottrina più avvertita, da tempo, abbia colto come, nell'attuale contesto normativo, la stessa tutela previdenziale non è più fondata sul principio del rischio professionale, secondo la logica privatistica dell'assicurazione obbligatoria, ma è espressione della solidarietà dell'intera collettività, e, per quanto qui interessa, che il dovere di sicurezza è del tutto svincolato dall'obbligo delle assicurazioni sociali.

Nel caso in esame, a ben vedere, ne può affermarsi che il rischio da contatto con l'amianto fosse una causa estranea all'attività imprenditoriale - inerendo ad essa -, nè può escludersi la necessità di accertare in concreto la effettiva adozione, o no, delle misure di prevenzione e profilattiche suggerite dalla tecnica e dall'esperienza.

D'altra parte è evidente che l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale, opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo come fonte della suddetta responsabilità, la norma dell'art. 2087 cod. civ., la quale impone un obbligo dell'imprenditore di adottare, indipendentemente dalle disposizioni antinfortunistiche predisposte dalla legge in via generale o in relazione a determinate attività lavorative, tutte le cautele necessarie, secondo l'esperienza e la tecnica, a tutelare la integrità fisica dei dipendenti, anche quando questi siano stati regolarmente assicurati (su richiamata Cass. n. 7224 del 1983).

Non è revocabile in dubbio che, contrariamente a quanto sembra ritenere la impugnata sentenza, da tempo era nota la pericolosità della lavorazione dell'amianto, e, in ogni caso, da epoca ben anteriore al 1970. A tal fine basti ricordare come già il R.D. 14 giugno 1909 n. 442 (epoca nella quale le nozioni scientifiche, ed anche le esperienze in campo industriale, erano certo assai inferiori a quelle che si avevano nel 1970), che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all'art. 29 tabella B n. 12, includeva la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l'applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non sia assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo; norma sostanzialmente identica seguiva nel regolamento per l'esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, emanato con decreto luogotenenziale 6 agosto 1916 n. 1136, art. 36, tabella B, n. 13.

Ancora il R.d. 7 agosto 1936 n. 1720 che approvava le tabelle indicanti i lavori per i quali era vietata l'occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni, prevedeva alla tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui è consentita l'occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli, subordinatamente all'osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi, al n. 5, la lavorazione dell'amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura.

Lo stesso R.D. 14 aprile 1927 n. 530, tra gli altri agli artt. 10, 16, e 17, conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche (ridurle per quanto possibile).

In epoca più recente, oltre alla legge delega 12 febbraio 1955 n. 52, che, all'art. 1, lettera F, prevedeva di ampliare il campo della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303 - di seguito esaminato - ed alle visite particolarmente accurate previste dal D.P.R. 20 marzo 1956 n. 648, si deve ricordare il regolamento 21 luglio 1960 n. 1169 che all'art. 1 prevede, specificamente, che la presenza dell'amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio.

Si può infine ricordare che il premio supplementare stabilito dall'art. 153 del T.U. n. 1124 del 1965, per le lavorazioni di cui all'allegato n. 8, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi (Cass. 20 agosto 1991 n. 8970).

Tutto ciò, senza considerare che la imperizia, nella quale rientra la ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro.

Da quanto esposto discende che normativamente, all'epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti, era ben nota la intrinseca pericolosità delle fibre dell'amianto impiegato nelle lavorazioni, tanto che le stesse erano circondate legislativamente di particolari cautele, anche indipendentemente dalla concentrazione di fibre per centimetro cubo.

È appunto rispetto a tale rischio intrinseco a tale tipo di lavorazione che si imponeva il concreto accertamento della adozione di misure idonee a ridurre il rischio, in ottemperanza alla norma di chiusura di cui all'art. 2087 cod. civ., e tra queste, proprio quelle delle quali i ricorrenti lamentavano la insufficienza; segnatamente quella di cui all'art. 21 del D.P.R. 19 marzo 1956 n. 303, il quale, come la stessa impugnata sentenza ricorda, stabilisce che nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro" soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione", cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri.

Nè si tratta di una prescrizione isolata, sol che si consideri che nello stesso D.P.R. n. 303 vi sono numerose norme che richiamano il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: l'art. 9, che prevede il ricambio d'aria, l'art. 15, che prevede, persino fuori dell'orario di lavoro, si debba ridurre al minimo il sollevamento della polvere nell'ambiente, e, proprio al tal fine, l'impiego di aspiratori; l'art. 18, che proibisce l'accumulo delle sostanze nocive; l'art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri; l'art. 20, che difende l'aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l'uso di aspiratori; l'art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell'atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione.

Orbene è evidente il difetto di motivazione che discende dal confronto tra la doglianza e l'accertamento compiuto dalla impugnata sentenza:

i ricorrenti si dolgono della mancanza di qualsiasi misura di prevenzione, di profilassi e di sicurezza e lamentano "l'uso di sistemi di lavorazione pressappochisti";

la sentenza impugnata afferma che non erano dovute altre misure di tutela, posto che: a) la concentrazione di fibre di amianto era inferiore a quella massima consentita; b) il solo modo per impedire l'evento era costituito non dalla adozione di misure di profilassi del luogo di lavoro, ma dalla eliminazione della lavorazione dell'amianto, così come successivamente accertato e legislativamente stabilito.

Ma in tal modo la motivazione ha del tutto trascurato di prendere in considerazione:

a) che in un ambiente di lavoro nel quale si sollevino delle polveri (e ciò, in particolare, secondo quanto assunto dai ricorrenti, al momento di scaricare l'amianto, il che avveniva senza particolari cautele), la legge già esistente all'epoca imponeva di impedire che ciò avvenisse, e, inoltre, imponeva altresì, come si è visto, di tener conto della natura delle polveri, cioè, - per le ragioni esposte, desumibili dalla normativa esistente - della particolare pericolosità dell'amianto;

b) che, secondo intuitiva evidenza, non ogni addetto alla lavorazione dell'amianto incorreva in malattia mortale (che, altrimenti, assai più celermente si sarebbe pervenuti al divieto assoluto), ma a seconda delle condizioni soggettive ed ambientali, che, pertanto richiedevano un accurato accertamento in relazione alle specifiche notazioni desumibili dalle riferite dichiarazioni testimoniali, le quali, invece sono state ritenute irrilevanti "proprio alla luce dei soli elementi di carattere obbiettivo".

Quanto alla natura di tali elementi di carattere "obbiettivo" si deve ricordare che, secondo la impugnata sentenza, essi sarebbero:

a) il fatto che il dante causa dei ricorrenti si fosse ammalato di mesotelioma e non di asbestosi, e ciò perché solo quest'ultima malattia sarebbe stata la prova di una alta concentrazione di fibre di amianto, e, a contrario, perché l'essersi ammalato di mesotelioma avrebbe costituito la prova di una bassa concentrazione di fibre di amianto;

b) la distanza del luogo di lavoro da quello ove si trovava l'amianto;

c) la mancata contestazione alla società di violazioni dell'art. 21 del richiamato D.P.R. n. 303 del 1956;

d) la progressiva modificazione degli impianti secondo le prescrizioni dell'autorità sanitaria.

Sussistono le carenze di motivazione lamentate dai ricorrenti in ordine a tutte queste affermazioni, ed è palese la illogicità della affermazione che le stesse avrebbero carattere oggettivo.

È, infatti, innanzi tutto evidente, in via generale, come non vi sia un dato più relativo e maggiormente soggettivo, della efficacia causale su un organismo umano di un fattore tossico: pur essendo incontrovertibile la pericolosità della polvere di amianto, la sua incidenza sui diversi apparati individuali non è riducibile ad una costante. E ciò è particolarmente vero per l'amianto, proprio come fattore patogeno del mesotelioma; aspetto questo molto superficialmente esaminato dalla impugnata sentenza.

La distanza del luogo di svolgimento del lavoro è un elemento di valutazione di per sè ambiguo, ove un posto in correlazione con le caratteristiche dell'ambiente (chiuso o aperto, aerato o no, munito di aspiratori o no, polveroso o no: Cass. 8 marzo 1991 n. 2441).

Quanto alla mancata contestazione delle violazioni, questa non equivale, e non ne ha certo il carattere oggettivo, ad accertata assenza di violazioni, specialmente allorché, come nel caso in esame, esisteva un materiale probatorio, in senso contrario, del quale è stata omessa la valutazione (Cass. 20 agosto 1991 n. 8970).

Infine, per quanto concerne l'adeguamento tecnologico della datrice di lavoro ai livelli massimi consentiti dalla normativa specialistica antinfortunistica, a parte la genericità della argomentazione che non si addentra nella identificazione delle misure adottate, tale argomento ricade in quello già esaminato, e confutato, del carattere esaustivo di tale disciplina specialistica, laddove, come si è visto, occorre altresì tener conto dei criteri generali dettati dall'art. 2087 cod. civ., e di tutte le norme generiche di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro e per le lavorazioni insalubri.

La impugnata sentenza, pertanto, è incorsa nel difetto di motivazione e nella illogicità censurata dai ricorrenti; ne conseguono l'accoglimento del ricorso, la cassazione della impugnata sentenza ed il rinvio per nuovo esame del gravame al tribunale di Modena, che provvederà anche sulle spese del procedimento di cassazione, dando applicazione al seguente principio di diritto:

le norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie sul lavoro costituiscono un'applicazione specifica del più ampio principio contenuto nell'art. 2087 cod. civ., rispetto al quale la mancata violazione di quelle norme non è di per sè sufficiente ad escludere la responsabilità dell'imprenditore; l'art. 2087 cod. civ., si atteggia anche come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, nel senso che, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, la disposizione suddetta impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure generiche di prudenza, diligenza e la osservanza delle norme tecniche e di esperienza; l'esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale, opera esclusivamente nei limiti posti dall'art. 10 del D.P.R. n. 1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall'assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell'ambiente di lavoro, viene in rilievo come fonte della suddetta responsabilità, la norma dell'art. 2087 cod. civ., la quale impone all'imprenditore l'obbligo di adottare, indipendentemente dalle disposizioni antinfortunistiche, predisposte dalla legge in via generale o in relazione a determinate attività lavorative, tutte le cautele necessarie, secondo l'esperienza e la tecnica, a tutelare la integrità fisica dei dipendenti, anche quando questi siano stati regolarmente assicurati; incorre in insufficiente motivazione ed in error in procedendo il giudice di merito che, nell'esaminare una domanda di risarcimento dei danni ex art. 2087 cod. civ. da parte degli eredi di un lavoratore addetto ad una lavorazione con l'amianto, deceduto per mesotelioma, ometta di esaminare le testimonianze raccolte sulla assenza di cautele nella lavorazione, soltanto in virtù della circostanza che il detto lavoratore non si era ammalato di asbestosi, della circostanza che la datrice di lavoro non risultava aver avuto contestazioni per violazioni dell'art. 21 del D.P.R. n. 303 del 19 marzo 1956 e della circostanza che non era risultata accertata, in sede di consulenza tecnica, una concentrazione di fibre di amianto, nell'atmosfera del luogo di lavoro, superiore a quella massima consentita dalle norme all'epoca vigenti.

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[panel]P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la impugnata sentenza e rinvia al tribunale di Modena per nuovo esame del gravame e per provvedere in ordine alle spese del procedimento di cassazione.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione il 2 marzo 1998.[/panel]

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