Disastro del Vajont: 9 Ottobre 1963
Vajont è il nome del torrente che scorre nella valle di Erto e Casso (PN) per confluire nel Piave, davanti a Longarone e a Castellavazzo, in provincia di Belluno. Tra il 1957 e il 1963 la morfologia della valle del torrente Vajont venne profondamente modificata dalla costruzione di una imponente diga a doppio arco dell’altezza di 261,60 m e della lunghezza di 190 m alla sommità. Lo sbarramento del torrente avrebbe permesso la creazione di un lago della capacità complessiva di circa 170 milioni di mc. Lo sbarramento del torrente avrebbe permesso la creazione di un lago della capacità complessiva di circa 170 milioni di mc, destinato a raccogliere acqua proveniente da tutti i bacini artificiali del Cadore, per poi convogliarla alla centrale elettrica di Soverzene.
Al tempo la normativa non prevedeva l’obbligo di valutare la stabilità dei versanti dei futuri invasi e quindi le perizie risultarono sotto questo profilo incomplete. Solo nel 1959, a lavori quasi conclusi, ed in seguito ad una frana avvenuta il 22 marzo nel vicino bacino idroelettrico di Pontesei (Forno di Zoldo, BL) si decise di approfondire le indagini geologiche. L’incarico fu affidato, tra gli altri, al geologo austriaco Leopold Müller che si avvalse della collaborazione di due geologi italiani, Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, e Franco Giudici. Nella loro relazione definitiva, consegnata nel giugno 1960, essi affermarono che sul versante settentrionale del monte Toc prospicente l’invaso era presente una frana antica, già scivolata in epoca preistorica a sbarrare la valle, che a seguito della creazione del lago avrebbe potuto muoversi nuovamente.
Nel frattempo, nel settembre del 1959, la diga venne ultimata ed iniziarono le prove di invaso. Nel marzo 1960 sul versante si manifestò una grande fessura a forma di M lunga oltre 2 km e larga circa un metro. Nel novembre dello stesso anno si staccò una frana di circa 700 mila metri cubi che, precipitando all’interno dell’invaso, generò un onda anomala di circa 10 metri di altezza. Subito dopo questo evento venne disposto lo svaso controllato del bacino ed i movimenti rallentarono subito fin quasi a fermarsi. Negli anni successivi vennero effettuate altre prove di invaso a seguito delle quali i movimenti della frana si riattivarono.
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Il 26 settembre 1963 si decise di procedere con lo svaso ma il provvedimento non ebbe l’effetto sperato ed il movimento della massa continuò ad aumentare, fino a raggiungere la mattina del 9 ottobre i 30 cm al giorno. Lo stesso giorno alle 22.39, la frana si staccò. Un volume di roccia di circa 270 milioni di metri cubi, scivolò ad una velocità di circa 70-90 km/h e, in una ventina di secondi l’intera massa raggiunse il lago. L’impatto con l’acqua generò un’onda di circa 50 milioni di metri cubi che, dividendosi in più direzioni: una parte lambì le abitazioni di Casso (Erto e Casso, PN), un’altra distrusse alcune frazioni di Erto e Casso , e un’altra ancora scavalcò la diga, precipitando nella stretta valle sottostante.
In pochi minuti circa 25 milioni di metri cubi di acqua e detriti raggiunsero Longarone e la spazzarono via con la quasi totalità dei suoi abitanti. Insieme con Longarone vennero distrutti gli abitati di Pirago, Maè, Villanova e Rivalta (in provincia di Belluno), Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa di Erto (in provincia di Pordenone). Vennero distrutte 895 abitazioni, e 205 unità produttive a Longarone, la ferrovia Belluno-Calalzo venne divelta per 2 km e la SS51 distrutta per 4 km. L’evento dimezzò la superficie a seminativo, e andò perduto il 30% del bestiame. Dal 1964 al 1993 lo Stato ha speso almeno 986 milioni di Euro (attualizzati al 2011). I morti furono 1917, 400 dei quali mai più ritrovati.
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